FIGLI DI FAMIGLIE DIVORZIATE E RICOMPOSTE

IDENTITA' E STORIA FAMILIARE

 

 

di Anna Oliverio Ferraris

 

 

 

Storie parallele

 

Sette anni e mezzo, Matteo viene portato in studio dalla mamma per un esame psicologico perché <<ultimamente sta dicendo molte bugie>>. Le dice al patrigno ma soprattutto agli amici. Si tratta di bugie <<grosse, preoccupanti, che vanno in un'unica direzione e che assomigliano a dei piccoli deliri>>.

 

Matteo si presenta come un bambino dall'aspetto gradevole e armonioso, spigliato, aperto, curioso di tutto. Possiede una notevole proprietà di linguaggio per la sua età. Sorridendo mostra i suoi quaderni di scuola alla psicologa e spiega che nei calcoli e nelle tabelline è <<fortissimo>>, ma anche scrivere e leggere gli piace, soprattutto quando si tratta di <<civiltà antiche, animali preistorici e automobili di formula uno>>.

 

Il bambino è subito conquistato dal gatto di casa che avvicina e accarezza delicatamente: gli sorride, gli si rivolge con dei miagolii, lo imita scherzosamente assumendo le stesse posizioni. Analoghi comportamenti gentili e lievi Matteo li ha con le persone e gli oggetti. Nulla, nel suo aspetto e negli atteggiamenti, lascia trasparire una difficoltà, una qualche sofferenza: sebbene si trovi in un ambiente sconosciuto appare a suo agio, non ha tic né incertezze o timidezze. Quando lo si invita a disegnare una famiglia di sua invenzione, aderisce volentieri e, come succede quasi sempre nelle rappresentazioni della famiglia dei bambini della sua età, il disegno rispecchia sia la sua condizione famigliare che i suoi sentimenti e desideri. Dopo avere ultimato il disegno, Matteo lo illustra tranquillamente e risponde volentieri alle domande della psicologa.

 

 

Nella figura si vede (sul lato sinistro) una casa dal cui camino esce del fumo, il che indica che è abitata, che al suo interno c'è vita, calore. E infatti questa è la casa in cui Matteo vive con la mamma e Mario, il patrigno "di fatto". <<Mario è simpatico, mi aiuta a fare i compiti e mi accompagna a scuola, ma non è il mio papà>> spiega <<lui ha una figlia sua che però abita con la mamma. Loro si vedono poco perché lei [l'ex di Mario] è arrabbiata perché lui abita a casa nostra con la mia mamma. Lei ha però un fidanzato, ma non abitano insieme ma ognuno a casa sua>>. Dalla casa parte una strada che conduce <<all'officina di papà>>. Sul lato destro del foglio c'è una seconda casa, quella del papà di Matteo. Questa casa ha una grande porta che però è chiusa. Tra le due case ci sono tre personaggi: il primo a sinistra è mamma, quello al centro Matteo, quello a destra papà. A parlarsi sono soltanto il figlio e il padre: il primo saluta e domanda ("ciao papà, quando esci"), il secondo risponde ("fra un'ora e venti minuti"). E' importante notare come il personaggio femminile abbia a sua disposizione uno spazio per parlare, il fumetto però è completamente bianco a dimostrazione del fatto che tra i genitori non c'è possibilità di dialogo. In alto, nel cielo, ci sono un sole e quattro nuvolette, due delle quali si sovrappongono al sole; vi si può leggere una metafora della condizione famigliare dell'autore del disegno: il sole (padre) c'è ma è visibile soltanto in parte. Nell'insieme il disegno è assai esplicito e simbolico del vissuto di Matteo.

 

I genitori si sono separati tre anni fa in modo tumultuoso e fortemente conflittuale. In seguito la madre ha iniziato a convivere con un altro uomo (a sua volta separato e con una figlia adolescente). Il padre, invece, non si da pace. Le ostilità sono tutt'ora in corso e violente. I due si odiano e Matteo ne fa le spese, come succede in molti casi di separazione in cui gli ex si lasciano travolgere dai loro sentimenti-risentimenti e non riescono a tenere separati i loro sfoghi e la loro sete di vendetta dai bisogni dei figli. Dopo la separazione, lui ha cercato di avere l'affidamento di Matteo. Non riuscendovi ha poi minacciato l'ex-moglie in modi e tempi diversi (danni all'auto, bigliettini di insulti, ecc.) e non ha più voluto incontrare il figlio nei giorni stabiliti dal giudice o tenerlo con sé durante le vacanze estive. Come reazione, lei ha inoltrato al tribunale la richiesta di disconoscimento della paternità a causa del comportamento irresponsabile di lui. Come contro mossa lui ha poi affermato, di fronte al giudice, di dubitare che Matteo sia suo figlio, in quanto durante gli anni di matrimonio lei avrebbe avuto altre relazioni sessuali.

 

Matteo non conosce tutti questi retroscena nei dettagli, vede però che suo padre non lo cerca, non gli telefona, non si accorge di lui quando qualche volta lo sfiora casualmente in strada. Ma c'è dell'altro. Il padre è proprietario di una palestra in città, dove si recano adulti e bambini. Una delle cose a cui Matteo più aspira è frequentare quella palestra e iscriversi al corso di arti marziali tenuto da suo padre. La sua richiesta di iscrizione, però, è stata respinta. Alcuni dei suoi compagni di classe invece non soltanto frequentano la palestra, ma sono anche allievi di suo padre.

 

Capita spesso che gli amici, in particolare quelli con cui tutti i giorni percorre a piedi il tratto di strada che da casa porta a scuola e viceversa, raccontino ciò che fanno in palestra e gli mostrino delle mosse di karate che hanno imparato dall' "istruttore". Tutti quanti, ovviamente, lo sollecitano ad iscriversi e non comprendono perché non lo abbia ancora fatto. Matteo accampa delle scuse, assicura che prima o poi lo farà, che suo padre glielo ha chiesto molte volte ma che al momento non ha tempo perché deve suonare il violino. <<Uno strumento difficile che richiede concentrazione>> spiega alla psicologa [ma si tratta di una bugia] e con un'espressione furbetta domanda <<vuoi che te lo disegni?>>.

 

Qualche tempo fa, un bambino con cui aveva litigato, non soltanto gli ha ricordato, come se si trattasse di un insulto, che i suoi genitori sono separati ma gli ha anche detto con tono di scherno e davanti a tutti: <<tuo padre non ti vuole in palestra!>>. Da allora le bugie sono aumentate di numero e di grandezza. Matteo ha incominciato a raccontare, a famigliari e conoscenti, di incontri con il padre in pizzeria e al cinematografo, di gite che fa con lui fuori città, di una BMW gialla che il padre terrebbe nascosta in un garage in campagna e che utilizzerebbe soltanto di notte per percorrere ad <<altissima velocità>> centinaia e centinaia di chilometri. E, come spesso succede in questi casi, più racconta più ha la sensazione che ciò che inventa acquisti concretezza, verità. D'altro canto i suoi amici lo stanno ad ascoltare e non lo contraddicono. Si tratta di un meccanismo psicologico che lo psicologo sociale L. Festinger (1978) ha descritto nell'ambito della teoria della dissonanza cognitiva: il sostegno sociale, il fatto cioè che gli altri, gli ascoltatori, mostrino di credere, ristabilisce una "consonanza cognitiva" là dove invece esiste una discrepanza evidente tra parole e fatti. Il paradosso all'origine di questa forma di auto-inganno (che Festinger definisce "effetto post-smacco") è il seguente: se chi ascolta può essere convinto di una determinata cosa anche se questa non è vera ma inventata, allora quella cosa finisce per acquisire lo status di verità. La realtà-verità nasce dal consenso degli altri, dal fatto che questi mostrano di crederci, e non ha più importanza che un fatto o un evento sia realmente accaduto.

 

Il rifiuto del padre è una realtà che Matteo non può tollerare e neppure pensare perché va a colpire, come emergerà più avanti, la sua stessa identità, il nocciolo del suo Io. Per evitare di dover riconoscere una realtà insostenibile, per poter mantenere la propria autostima e integrità di fronte al mondo, Matteo ha trovato la scappatoia di inventarsi una realtà parallela; una realtà virtuale che non soltanto ha una funzione consolatoria, ma che gli serve per poter mantenere integra l'immagine di sé, il suo rapporto con il mondo secondo una serie di categorie condivise. E poiché i suoi racconti ottengono l'effetto sperato, egli è incoraggiato a continuare ad usare questa strategia vincente. Si tratta ovviamente di una scelta rischiosa, soprattutto se il bambino, rinforzato dall'effetto che ottiene con gli amici, dovesse realmente convincersi che ciò che racconta è vero, se dovesse cioè optare per la finzione perdendo la capacità di entrare e uscire dal gioco di finzione. Una scelta del genere infatti porta al delirio, ossia all'autoisolamento in una realtà di comodo per non dover confrontarsi con i propri sentimenti feriti. E' comprensibile, perciò, che la mamma si preoccupi. All'origine del disagio c'è una situazione famigliare che invece di favorire l'integrazione frammenta le esperienze e lascia, di fatto, il bambino solo di fronte al compito di rimettere insieme i pezzi esplosi della sua vita.

 

Matteo è legato alla mamma, anche se i motivi di contrasto e di opposizione sono in aumento e lui stia diventando giorno dopo giorno sempre più disobbediente e riottoso. Non tollera che lei critichi o svaluti papà così, non appena ella inizia a parlare dell'ex marito, lui si tappa immediatamente le orecchie con le mani e scappa via. Da qualche tempo la accusa di ostacolare i suoi incontri con il padre. Non conoscendo i veri motivi per cui papà non vuole incontrarlo, Matteo si dà questo tipo di spiegazione che gli crea meno ansia della assenza di spiegazione. D'altro canto, egli interpreta anche un desiderio di mamma, che qualche tempo fa aveva avanzato la richiesta di disconoscimento di paternità.

 

A Mario non ha nulla da rimproverare, ma non ha mai pensato che possa sostituire suo padre. D'altro canto Mario ha dei problemi con Loredana [la figlia adolescente] e con l'ex moglie che, a distanza di anni, continua a fargli i "dispetti", come disdire un incontro con la figlia all'ultimo momento, staccare il telefono in certi orari, incoraggiare Loredana a restare in casa davanti alla tv quando il padre vorrebbe invece che uscisse con le amiche o frequentasse una palestra. Di questi e altri problemi con la prima famiglia Mario parla spesso, il che rafforza la sensazione di Matteo che Mario non possa sostituire suo padre: anche se vive con lui ed è gentile, egli ha infatti un suo altro mondo a parte a cui pensa e che lo angoscia.

 

Anche Loredana ha delle difficoltà evidenti collegate alla separazione dei genitori. Dopo anni, la conflittualità tra i due ex non si è sopita anche se ormai entrambi hanno un nuovo partner. E' come se avessero bisogno di mantenere una qualche forma di legame attraverso i sentimenti negativi. La figlia è ancora, come in passato, al centro delle loro contese e ripicche e spesso ha la sensazione di essere una sorta di merce di scambio. Più volte ha chiesto di essere tenuta fuori dalle loro lotte. Le lunghe schermaglie giocate sulla sua pelle ne hanno accentuato la timidezza e l'hanno portata a chiudersi sempre più in se stessa. E' difficile ormai che esca di casa se non per andare a scuola. Ed è impossibile portarla dall'oculista. Loredana è miope, in classe ha dei problemi, ma si oppone all'esame oculistico. L'aspetto originale di questo rifiuto consiste nel fatto che la ragazza non rifiuta gli occhiali per motivi estetici ma per una ragione più profonda. Al padre che le proponeva delle lenti a contatto, ha spiegato, con voce alterata: <<Non voglio gli occhiali perché non voglio vedere! Non voglio vedere le persone in strada, i miei compagni di scuola, la gente che mi conosce…>>.

 

Questa reazione è indicativa di uno stato più generale. 'Se io non vedo gli altri, gli altri non mi vedono' è un tipico ragionamento infantile. Loredana vorrebbe sparire perché non si sente sufficientemente forte da poter sostenere lo sguardo altrui. Come ha spiegato G.H. Mead (1972), se le persone si riconoscono una identità è in gran parte perché adottano il punto di vista degli altri, quello del gruppo sociale di appartenenza e di altri gruppi. Il sé è essenzialmente una struttura culturale che nasce dalle interazioni culturali: "si sviluppa come il risultato delle relazioni che l'individuo intrattiene con la totalità dei processi sociali e con gli individui che ne sono coinvolti".

 

Loredana è in piena adolescenza ed è timida, inoltre non è riuscita a superare il trauma della separazione. Appare indifesa, priva di identità. Che un adolescente abbia una identità fluttuante - "diffusa" secondo la terminologia usata dallo psicologo dell'età evolutiva Erik Erikson - è un fatto normale (consente di rimandare scelte esistenziali che, se avvengono troppo precocemente, possono pregiudicare lo sviluppo), è priva però di una identità famigliare che, in presenza di una identità individuale debole, la sostenga nei rapporti col mondo. L'impossibilità di avere una identità famigliare presentabile aumenta la sua vulnerabilità e non le consente di sostenere lo sguardo degli altri: nello sguardo altrui essa teme infatti di vedere riflessa la propria debolezza. Loredana preoccupa suo padre anche per un'altra ragione: ultimamente ha compiuto una serie di furtarelli a danno di parenti e compagne di scuola ed anche della sua convivente, la mamma di Matteo.

 

Sebbene le storie e le età dei protagonisti siano diverse, Loredana e Matteo presentano entrambi un problema di identità legato al fatto che l'identità famigliare è incerta e non si è costituito un nuovo gruppo di appartenenza in grado di infondere loro sicurezza.

 

 

Alla ricerca dell'identità

 

Coloro che affrontano il tema delle separazioni, dei divorzi e delle famiglie ricomposte dal punto di vista dei figli, considerano tutta una serie di condizioni 'a rischio' che vanno dai sensi di colpa alla paura di perdere i legami con i genitori, dalla vergogna alle fantasie di riunificazione, dal senso di impotenza alla gelosia al conflitto di lealtà e via discorrendo, non prestano però sufficiente attenzione al fatto che queste modifiche strutturali della famiglia e dello stile di vita sono spesso all'origine di crisi di identità nei figli che possono minare il loro senso di sicurezza e l'autostima. Questa dimensione della psiche non è stata abbastanza esplorata, anche se l'improvviso venir meno dell'identità famigliare nell'infanzia potrebbe essere una causa sufficiente a spiegare altri problemi o fattori di rischio.

 

E' noto che i bambini hanno bisogno di stabilità, di punti di riferimento chiari e facili da individuare. Questi punti di riferimento fisici e psicologici sono le fondamenta su cui essi costruiscono man mano il proprio senso di sicurezza e la propria identità. Mentre nei primi 3-4 anni di vita il sostegno al proprio sé proviene essenzialmente dalle figure di attaccamento principali - ossia da una o più persone che gli comunicano non soltanto calore ma anche la sensazione di essere al centro dei loro pensieri, di 'contare', di essere amato per quello che è (come persona separata e unica) indipendentemente da ciò che può fare o non fare - a partire dai i 5-6 anni l'identità individuale (che ha incominciato a prendere forma grazie al ruolo svolto dalle figure di attaccamento) poggia molto sull'identità famigliare. A questa età, nel confrontarsi con il mondo esterno, i bambini hanno una maggiore e più piena coscienza di entrare in contatto con altri diversi-da-sé (adulti e bambini), mentre in famiglia il rapporto è con altri simili-a-sé. Negli anni della scuola elementare essi diventano sempre più consapevoli di questa divaricazione e imparano a differenziare i loro comportamenti, atteggiamenti e linguaggio in rapporto alle situazioni e ai diversi individui.

 

A poco a poco ogni bambino interiorizza i "noi" a cui partecipa. Questi "noi" (gruppi di appartenenza) si radicano in una stratificazione sociale dove si situano gli uni in relazione agli altri in un rapporto di potere, di prestigio, di legami affettivi e in una storia che man mano depone nella memoria del gruppo tutta una serie di avvenimenti, di esperienze, di modelli e di rappresentazioni. L'identificazione non traduce soltanto la posizione dell'individuo determinata dalla sua storia e dal suo status sociale, ma anche le sue anticipazioni e aspirazioni. Un "noi" fondamentale nell'infanzia è - come ho già ripetuto più volte - quello famigliare.

 

Nel mondo extra-familiare l'indentità individuale e le altre identità di gruppo, gli altri "noi" (ad es. nell'adolescenza il gruppo dei pari), sono ancora troppo deboli, non sufficientemente strutturati per poter dare al bambino sicurezza e autosufficienza. E' l'identità famigliare quella che fornisce la sicurezza di cui ha bisogno quando si trova fuori di casa. Essere riconosciuto come il figlio di… il fratello di… o il nipote di… quando si hanno 7-12 anni è quasi sempre un punto di forza (a meno che i propri famigliari godano di una cattiva reputazione). In seguito, via via che l'identità individuale prende corpo, questo tipo di identità mutuata dalla famiglia potrà essere superflua o essere addirittura vissuta con fastidio; ma fin quando il senso di sicurezza e l'autostima dipendono dagli adulti che si occupano del bambino e dai fratelli e dalle sorelle maggiori (ossia dal gruppo degli altri simili-a-sé), l'identità famigliare è una dimensione fondamentale, una sorta di carta di identità con cui un bambino si presenta al mondo, ossia agli altri-diversi-da-sé.

 

Un bambino si sente più forte di fronte ai compagni, agli amici, ai maestri, meno vulnerabile e insicuro di fronte al mondo, se può esibire una famiglia forte e "forte" per la maggior parte dei bambini di questa età è sinonimo di "regolare". Una famiglia unita pone infatti minori problemi nelle relazioni con l'esterno (si conforma ad uno schema noto, condiviso e facilmente riconoscibile) e risponde meglio al processo di ricerca di identità del bambino che ad una certa età cerca di sistemare tutti i pezzi della sua storia in cui rientrano i nonni, i parenti e ovviamente i genitori. In seguito questa esigenza di "regolarità" sarà meno importante, perché andranno consolidandosi altre forme di identità, più legate all'individuo e meno al gruppo famigliare. In questo senso i bambini sono più conformisti degli adolescenti e degli adulti: lo sono per necessità di crescita.

 

In uno spazio dove circolano l'affetto e l'amore, la famiglia contribuisce a creare le identità personali di ciascuno dei suoi membri. Nelle società individualiste, come la nostra, essa assicura una funzione centrale: quella (di tentare) di consolidare in permanenza il "sé" degli adulti e dei bambini. Contrariamente a quello che il termine individualismo può lasciar credere, l'individuo ha bisogno, per diventare se stesso, della conferma delle persone a cui egli attribuisce importanza e significato. Questi "altri significativi" per un bambino sono i genitori, anche se altri famigliari possono svolgere lo stesso ruolo. Poiché la famiglia, come gruppo, ha questo ruolo di attribuzione di identità e di supporto nella costruzione dell'identità personale, è evidente che quando essa entra in crisi, si scioglie o va in frammenti, anche il processo di formazione dell'identità dei figli ne risente. Si tratterà, allora, di prendere delle contromisure efficaci e tempestive.

 

Nei casi di Matteo e di Loredana gli effetti della crisi famigliare sono visibili e interferiscono con la formazione della loro identità, il senso di sicurezza, l'autostima. Matteo ha un disperato bisogno dell'attenzione di suo padre. Ne ha talmente bisogno che, nell'attesa che lui ricompaia e posi nuovamente il suo sguardo su di lui, si è costruito un mondo parallelo di bugie; in realtà piccoli deliri che, da un lato, sono indicativi dei suoi bisogni e dei suoi desideri e, dall'altro, gli consentono di presentarsi agli occhi degli altri (i diversi-da-sé) con una identità familiare accettabile, credibile e tale da non sentirsi sminuito.

 

Matteo non è il solo nella sua classe ad avere dei genitori divisi, altri vivono la sua stessa condizione, ma egli è l'unico a non incontrare mai il padre. Gli altri bambini possono parlare delle visite, esibire regali, raccontare episodi e vicende varie, buffe o interessanti. Lui no. Se i suoi amici dovessero pensare che suo padre non lo vuole vedere, Matteo si sentirebbe perduto. Inconsciamente avverte che se il disinteresse, o addirittura il rifiuto di suo padre diventasse di dominio pubblico, egli perderebbe di valore agli occhi degli amici e di se stesso. Diventerebbe immediatamente più esposto e più vulnerabile. Potrebbe essere al centro di battute, di scherzi svalutanti. Potrebbe trovarsi nella condizione di dover creare un fronte tra sé e gli altri, di essere costretto a difendersi, di prevenire gli attacchi attaccando prima degli altri.

 

Anche Loredana, da circa sette anni (ne ha 15), da quando cioè i genitori si sono separati, vive una crisi di identità profonda, resa più difficile dal suo temperamento timido e introverso. La conflittualità permanente dei genitori, che continuano a lottare attraverso di lei, e il fatto che entrambi sono impegnati nel realizzare una nuova coppia, non le consentono di avere una identità famigliare di cui essere orgogliosa, da poter esibire all'esterno. La sua non è una famiglia normale. Non si è mai sentita veramente al centro dell'attenzione dei suoi genitori. Quando torna da scuola trascorre la maggior parte del tempo in una casa vuota. Prova vergogna per la sua condizione. Di fronte al mondo è completamente disarmata sia perché la sua identità individuale è quella di una ragazzina insicura, timida e introversa, sia perché, non frequentando i coetanei, isolandosi, vietandosi persino di guardare in faccia alle persone, non può formarsi una identità di gruppo, come invece accade per la maggior parte dei suoi coetanei che suppliscono, ad un io fragile, "diffuso" (secondo la terminologia di Erikson), appoggiandosi ad un "noi" forte, quello appunto del gruppo dei pari.

 

Problemi di identità nelle famiglie ricomposte possono nascere anche per altri motivi. Il terzo genitore può fornire ai figli acquisiti altri modelli di comportamento e una immagine di sé diversa rispetto a quella che loro si sono formati in precedenza in seno alla prima famiglia. I fratellastri, quando ci sono, possono alterare l'ordine della fratria.

 

A volte il confronto con il terzo genitore (seconda madre o secondo padre) è all'origine di contrasti come nel caso di Roberto, un ragazzo di 14 anni che vive con il padre ma trascorre le vacanze estive con la madre e il marito di lei. <<Vedo che Roberto è combattuto tra il modello del padre e il mio>> dice costui <<e vedo anche che ha imparato a dividere la realtà. E così lui tiene separati i due mondi. Credo che ne soffra perché la sua vita manca di unità. Ho però l'impressione che stia cercando di fare chiarezza. Direi che è quasi obbligato a fare chiarezza perché suo padre si è risposato quattro anni fa, ha avuto un altro bambino, poi si è nuovamente separato. Ora la seconda moglie ha un compagno. Il fratellastro vive con la madre e lui lo vede di tanto in tanto. Questa nuova situazione famigliare funziona per lui come uno specchio: quando il fratellino va in visita da loro lui rivede se stesso in visita da noi. Tempo fa Roberto disse più o meno queste parole che mi colpirono soprattutto perché mentre parlava guardava nel vuoto: "adesso anche per Michele (il fratellino) iniziano le visite, chissà se gli piace andare e venire da una casa all'altra, chissà che effetto gli fa avere due padri...">>. (A. Oliverio Ferraris, 1997 pag. 6-7)

 

Ci sono però anche casi in cui il secondo matrimonio porta ordine, stabilità e quindi anche identità famigliare. E' quanto si è verificato per Melissa e Johnny che, non avendo un padre, ne cercavano uno. <<Il contatto con i piccoli si è stabilito in modo del tutto naturale>> racconta il padre adottivo <<Loro hanno soltanto qualche fotografia del padre ma non ricordano nulla di lui, quindi mi hanno subito adottato come padre e fin dall'inizio hanno trovato che chiamarmi papà era la cosa più naturale del mondo. Non siamo stati noi a volerlo sono stati loro a iniziare per imitazione dei loro amichetti: io ero il compagno della mamma e vivevo con loro; loro vedevano che gli altri bambini chiamavano papà l'uomo che vive in casa... […] Alla questione del cognome non avevamo pensato fino a quando i bambini non hanno incominciato la scuola: fino a quel momento portavano il cognome della mamma, ma frequentando i compagni hanno incominciato a porci una serie di domande sul perché gli altri avessero il cognome del padre e loro quello della madre. Abbiamo cercato di spiegare che la cosa non aveva alcuna importanza e che ciò che contava veramente in una famiglia era l'accordo. I bambini però tornavano spesso sull'argomento e alla fine io e Carola ci siamo detti "ma che differenza fa, in fondo, se portano il cognome dell'uno o dell'altra? se preferiscono portare il cognome del padre, perché no?" e così abbiamo intrapreso tutta la trafila burocratica e loro sono diventati miei figli anche dal punto di vista giuridico. Così, sebbene io e Carola non siamo sposati, abbiamo deciso di fare una grande festa con amici, parenti e i bambini per celebrare la nostra unione e l'adozione di Melissa e Johnny. >> (da A. Oliverio Ferraris, 1997, pag. 74-75).

 

E, ancora, può anche accadere che un figlio preferisca la seconda condizione alla prima in quanto il nuovo genere di vita è meno noioso e più divertente del primo, magari più disordinato ma con dentro più persone e più luoghi. <<La vita con mio padre e mia madre era regolare ma noiosissima>> spiega un ragazzino di 13 anni. <<Adesso che viviamo in una città e in una casa più grandi, che mi incontro spesso con Andrea, il figlio del convivente di mamma che ha la mia stessa età, la passione per il calcio come me e degli amici simpatici, mi diverto molto di più. E' come se prima il cielo fosse sempre nuvolo e ora ci fosse il sole. Sono contento della mia nuova famiglia, anche se in casa c'è più casino e qualche volta mamma sia isterica perché papà si dimentica di mandare i soldi>>.

Per quanto riguarda i rapporti con i fratelli che entrano in famiglia all'improvviso, l'adattamento tende ad essere inversamente proporzionale all'età, anche se ci possono essere grosse variazioni da caso a caso. I più grandicelli possono avere, qualche volta, l'impressione che i propri spazi fisici e psichici vengano invasi dai più piccoli.

 

In generale, la fratria è il luogo di sentimenti importanti ma anche molto fluttuanti come qualità e intensità. Sono positivi o negativi, spesso ambivalenti, passano dall'odio e dalla gelosia alla complicità e alla solidarietà. Nella fratria classica delle famiglie unite, i bambini sono segnati dalla loro origine comune e per questo risentono di una certa indifferenziazione. Lottano per uscire dal dilemma "siamo simili o siamo diversi?". I sentimenti negativi non sono, allora, che un mezzo per definirsi differenti dall'altro-simile-a-sé (il proprio congiunto a cui si assomiglia) e trovare la propria identità. Viste sotto questa angolatura, le rivalità e i sentimenti di gelosia aiutano a crescere. La loro assenza può persino essere considerata sospetta. E' di aiuto, nel processo di individuazione, l'ordine di nascita, in quanto conferisce una gerarchia all'interno della fratria a cui i bambini danno molto valore. Gli status di primogenito, secondogenito, ultimogenito, ecc. incidono sulla formazione della personalità e fanno sentire i loro influssi anche in età adulta.

 

Nella fratria delle famiglie ricomposte questi sentimenti sono meno intensi, perché le origini sono diverse e i legami meno radicati. La complicità e la solidarietà tra 'fratelli e sorelle' può avere la meglio sui sentimenti negativi se il clima parentale è favorevole e lo stile di vita piacevole. Alcuni problemi tuttavia si pongono, soprattutto all'inizio, al momento della riorganizzazione famigliare. Non soltanto i bambini possono dover dividere la stessa camera, esser costretti ad usare gli stessi oggetti, ma anche lo status all'interno della fratria può subire delle modifiche rilevanti. Questo è forse l'aspetto più inquietante per i più grandicelli, stabilizzati ormai da anni nella loro posizione di primogeniti, ultimogeniti o intermedi. Per Serena, ad esempio, la perdita del posto nella gerarchia dei fratelli ha rappresentato una specie di dramma. Era da otto anni l'ultima della famiglia e non ha gradito affatto che qualcuno la privasse di questo privilegio. Il nuovo fratello (figlio della seconda moglie di papà) aveva soltanto quattro anni quando si installò in casa e su di lui erano concentrate tutte le attenzioni. Invece di mostrarsi protettiva con il piccolino, Serena divenne gelosa incominciò a fare lunghi capricci e a lamentarsi: <<Sono io che devo preparare la tavola, mettere in ordine le cose, rispondere al telefono. Lui non fa nulla. Prende i miei vestiti, li sparpaglia per la casa e nessuno dice niente. Se io invece prendo uno dei suoi giocattoli, subito arriva qualcuno a togliermelo di mano>>. <<Non è giusto!>> è il suo ritornello da ormai due anni.

Difficoltà analoghe possono incontrare i primogeniti quando in casa arrivano dei bambini più grandi che, modificando l'ordine di anzianità, alterano i rapporti tra i fratelli. La perdita dello status di primogenito comporta, spesso, una perdita di ruolo nei confronti dei fratelli minori: ora che in casa c'è un ragazzino più grande, diventa difficile mantenere un atteggiamento di superiorità o protettivo nei confronti dei più piccoli perché si rischia di essere smentiti dal più anziano. Naturalmente queste difficoltà possono essere superate nell'arco di un po' di tempo e rappresentare addirittura un vantaggio perché i figli si abituano ad una maggiore plasticità ed apertura, ad adattarsi a situazioni ed esigenze diverse; vanno però tenute presenti soprattutto nei casi in cui l'adattamento tarda a venire.

Il problema dell'identità non esclude né mette in ombra gli altri importanti aspetti collegati al divorzio e alla ricostituzione di una seconda famiglia, esso tuttavia rappresenta un punto centrale, per i figli, che non va sottovalutato. Se non si presta attenzione a questa importante dimensione della personalità, anche gli altri aspetti collegati alla relazione con i genitori separati, con l'eventuale terzo genitore e i fratelli acquisiti, nonché il rapporto con il mondo esterno (gli altri diversi-da-sé), rischiano di rimanere compromessi. Una delle prime misure da prendere, perciò, quando una famiglia si scioglie consiste nell'aiutare i figli a ricomporre l'identità famigliare. Si tratterà di una famiglia un po' più complicata della precedente, con un genitore esterno e qualche volta dei nuovi fratelli, ma pur sempre una famiglia con le sue figure di attaccamento, i suoi personaggi significati e la sua storia; una storia che si trasforma, si complica, ma le cui origini non vanno ignorate o cancellate.

 

 

Bisogno di storia

 

Anche in passato c'erano le famiglie ricomposte, i patrigni, le matrigne, i fratellastri: un bambino allevato da una coppia diversa da quella che lo ha generato non è una situazione nuova; ciò che è nuovo è la frequenza crescente di questo fenomeno e, soprattutto, il fatto che i genitori biologici siano entrambi viventi e conducano una vita separata, da soli o inseriti in altre famiglie e, qualche volta, dedichino parte del loro tempo a bambini e ragazzi dell'età dei loro figli, nati da un'altra unione. E se le nuove coppie cercano di staccarsi emotivamente dal passato per poter far funzionare al meglio la nuova composizione famigliare, per i figli, invece, il legame con il passato resta una dimensione importante alla radice della loro identità, della formazione del loro Io.

 

Passare dal "noi" della prima famiglia al "noi" della seconda è possibile ma non immediato, richiede del tempo e a volte il passaggio non si verifica. Nell'aderire a un'identità famigliare nuova, un figlio o una figlia possono avere l'impressione di tradire uno dei genitori biologici, di fargli un torto. Questo produce sensi di colpa, stanti ansiosi, incertezze, oppure un distacco affettivo come forma di difesa. Spesso i figli mantengono un attaccamento ben radicato nei confronti del genitore che non vive con loro e continuano a portare il patronimico (dato non indifferente soprattutto per i bambini, la cui mente è concreta e per i quali le parole hanno valore di verità) che è diverso dal cognome del patrigno, della matrigna e dei fratellastri. Nella famiglia tradizionale è normale avere tutti quanti il nome patronimico (che indica, in modo esplicito, l'identità di gruppo e il legame di sangue), nella famiglia ricomposta è normale invece avere un cognome diverso. I bambini devono allora capire che ci può essere una filiazione e un'alleanza non biologiche che si fondano sulla convivenza, l'educazione e sull'affettività.

 

Insomma, anche la famiglia ricomposta ha bisogno, per poter funzionare, di alleanze (verticali, intergenerazionali, e orizzontali, tra fratelli), ma tra vecchie e nuove alleanze ci possono essere delle interferenze. Quando il gruppo si modifica, ci sono sparizioni e comparse di genitori, parenti, bambini, storie, sistemi di valori, ruoli e luoghi; il gruppo che si modifica deve sacrificare certi aspetti del proprio funzionamento e accettarne di nuovi. Bisogna sopportare la perdita della coesione di gruppo antecedente e avere la forza di ricostruirne una nuova. Per i figli, specialmente quando sono bambini, questo lavoro può diventare complesso perché ci sono adulti presenti e adulti assenti e due diversi spazi da gestire. Tutto ciò li induce a porsi delle domande sulle loro radici. Un bambino che ha più padri e più madri può domandarsi se ha anche più parentele: se i nonni e i cugini dei suoi fratellastri sono anche suoi e viceversa. E' necessario allora spiegargli che l'ordine genealogico coinvolge soltanto i parenti dei genitori biologici. Sono loro che indicano le origini del bambino, la sua collocazione nella successione delle generazioni e i suoi legami con i membri della sua famiglia. Bisogna spiegargli che questi legami sono biologici e che il loro ordine è immutabile; questo consente al bambino di individuare le proprie origini senza ambiguità. Gli si spiega anche come nella famiglia ricomposta si creino dei legami di alleanza tra persone non imparentate, che hanno un loro significato e una loro influenza. Le relazioni affettive che originano dal vivere insieme, sotto lo stesso tetto, producono così, man mano, un tessuto parallelo.

 

Nei fatti, colui (o colei) che svolge la funzione parentale nei confronti di un bambino non suo, diventa una figura con cui quest'ultimo può identificarsi e trasmette degli elementi della propria storia, dei suoi miti familiari, della sua personalità; il che, se all'inizio può creare dei problemi di adattamento, in seguito può invece rappresentare un arricchimento per il figlio (o figlia), a patto che i rapporti siano definiti chiaramente e la differenza tra le generazioni mantenuta. Questo consente al bambino di sottrarsi alla "tirannia" dei modelli unici, a volte costrittivi, della famiglia classica. Se invece i punti di riferimento cambiano troppo di frequente, il bambino non si ritrova più e le domande su cui costruisce la sua identità - da dove vengo? a chi assomiglio? da chi sono diverso? - restano prive di una chiara risposta.

 

La situazione ideale si verifica quando il terzo genitore (patrigno, matrigna) aiuta i figli del proprio partner a mantenere una buona relazione con il genitore separato, quando non crea competizioni e non cerca di sostituirsi a lui (o lei). Il legame con il genitore separato non esclude il legame con il terzo genitore. Un bambino può avere infatti più figure di attaccamento e con ognuna stabilire un rapporto diverso.

Qualche volta il ruolo di favorire i rapporti tra figli e genitore separato riesce meglio al terzo genitore che non al genitore biologico che ha difficoltà a comunicare con l'ex-coniuge o a parlare di lui serenamente con figli, come nel caso che segue. <<Benedetta non sopporta l'ex marito>> spiega l'attuale compagno di Benedetta e terzo genitore <<lui invece è molto legato a Guido [figlio suo e di Benedetta] e gli telefona ogni giorno. Quando Guido parla al telefono col padre o quando il padre suona alla porta e aspetta il figlio in macchina, Benedetta si innervosisce, diventa una pila elettrica e si lascia scappare dei commenti che chiaramente Guido non gradisce: lui allora se ne va a testa bassa, nero in volto e senza salutare. Capisco che è duro per Benedetta conservare i contatti con qualcuno che si è lasciato, ma il figlio continua ad avere un legame, anzi un forte legame col padre. E allora lei dovrebbe essere più ragionevole, dovrebbe cercare di superare l'ostilità per il bene del figlio. Il fatto che il padre continui a interessarsi di lui è molto positivo: molti padri separati dopo un po' diradano gli incontri e finiscono per staccarsi dai figli.>> (A. Oliverio Ferraris, 1997, pag. 104)

 

Una madre può pensare che un secondo matrimonio rappresenti una nuova partenza e ritenere che sarebbe meglio per il figlio dimenticare il genitore biologico. <<E' molto contenta>> dice una madre parlando della figlia <<e chiama il mio secondo marito papà. E' meglio per lei se dimentica suo padre>>. Questa soluzione può funzionare qualche volta, quando il rapporto col padre era pessimo o quando il figlio non ha avuto fin dall'inizio alcun legame con lui; ma in molti altri casi non funziona perché implica che il bambino neghi o dimentichi non soltanto la sua vita famigliare precedente, ma anche metà della parentela (nonni, zii, cugini). Quando la separazione è stata consensuale è più facile che il genitore affidatario non ostacoli e, anzi, favorisca il rapporto tra figli e genitore separato. In casi del genere tra i due ex può, a volte, crearsi una sorta di alleanza sotterranea (all'insaputa del partner attuale) volta a mantenere vivo e in primo piano il legame genitore-figlio cosicché, tutti i tentativi che il terzo genitore può fare di sostituirsi a quello separato, vengono vanificati, grazie anche alla collaborazione attiva del figlio che agisce in sintonia con i suoi genitori.

 

E' possibile per un figlio appartenere felicemente a due famiglie se gli adulti lo aiutano a legare il passato con il presente: il passato non deve essere ignorato anche se non può dominare il presente. Chiedere perciò ad un bambino di rinunciare al suo legame con il genitore separato è uno degli errori più grossi che si possano fare. I bambini a cui viene fatto, in un modo o nell'altro, questo tipo di richiesta sono anche i più angosciati. E' invece importante che gli adulti consentano, e anzi incoraggino, questo legame a meno che non esistano gravissimi motivi per operare diversamente. E, naturalmente, bisogna rispettare i tempi del "lutto" causato dalla perdita del precedente stile di vita. Non soltanto gli orfani, anche i figli di separati e divorziati, vivono delle perdite. Perdita della presenza quotidiana di un genitore. Perdita dell'attenzione indivisa del genitore affidatario perchénelle propria vita sono entrati degli "estranei". Perdita di abitudini o rituali a cui ci si era affezionati e che davano un senso di stabilità e di ordine. Quando la nuova famiglia cambia residenza ci può essere perdita della casa, della scuola, degli amici. Quando nella nuova famiglia entrano altri bambini si possono perdere degli spazi oltre la posizione nella fratria di cui si è detto in precedenza.

Tutti noi abbiamo una certa dose di invulnerabilità e siamo in grado di fronteggiare cambiamenti anche dolorosi, tuttavia, quando svariate perdite si concentrano in un breve arco di tempo, diventiamo più vulnerabili. Qualche volta troviamo il modo di reagire in maniera efficace, altre volte invece facciamo ricorso a comportamenti che suscitano reazioni negative negli altri. Il furto, come conseguenza di una forte carenza emotiva, è una delle reazioni possibili nei bambini e nei ragazzi: alcuni si appropriano degli oggetti altrui per ridurre il senso di perdita che avvertono più o meno confusamente dentro di loro, altri - metaforicamente - per avere un segreto in un sistema famigliare in cui ci sono dei segreti che li escludono. Questi segreti possono essere: la vita sentimental-sessuale della mamma; progetti e piani dei genitori; fatti che accadono ma di cui non si parla; l'arrivo non annunciato di un fratellino o di una sorellina; ecc. Gli oggetti rubati assumono un significato simbolico, sono l'espressione tangibile di un controllo, di un possesso, del desiderio di sentirsi padroni di qualcosa, di valere. Sono delle conquiste da contrapporre al senso di frustrazione e di perdita. Qualche volta, delle vere e proprie stampelle ad una identità che si sta indebolendo. Ed è in questa chiave che vanno interpretati anche i furti recenti di Loredana.

Si è detto che ci vuole un periodo di adattamento, spesso lungo, quando si forma una nuova famiglia dai 'resti' di una precedente. Il tempo è una dimensione fondamentale: tempo da gestire per gli uni e per gli altri, tempo di appropriazione, tempo di negoziazione tra i bisogni del gruppo e i bisogni di ognuno, tempo per potersi conoscere e accettare. Questa regola però non è assoluta, non vale per tutti. Qualche volta l'arrivo di un nuovo genitore e la formazione di una nuova famiglia sono accolti con favore fin dall'inizio. Il figlio è contento di vedere che i suoi genitori sono più sereni: ha l'impressione di fare nuovamente parte di una famiglia "normale" con <<un papà e una mamma in casa>> come ha sottolineato un bimbo di 6 anni. Può anche sentirsi sollevato da una relazione troppo stretta, soffocante, con il genitore biologico affidatario.

Bisogna dunque capire i problemi di identità cui può andare incontro un bambino e riconoscergli il diritto di avere una sua storia famigliare di cui non debba vergognarsi. Se non lo costringiamo a scindere dolorosamente il passato dal presente ma lo aiutiamo a collegare le due dimensioni temporali, se lo aiutiamo a mantenere i legami con entrambi i genitori, egli sopporterà meglio quei cambiamenti che, inevitabilmente, si verificano nella sua vita affettiva e quotidiana. Bisogna saperlo ascoltare, lasciarlo parlare e sfogare, e poi parlargli usando parole tranquillizzanti che possano ridurre le sue fantasie di abbandono, che chiariscano i fatti senza però creargli ansie e inutili tormenti. Anche se è piccolo gli si possono dare alcune spiegazioni, perché un figlio è molto vicino agli stati emotivi dei suoi genitori. Aggiungere delle parole alle sue intuizioni significa renderlo più forte. E poi deve sapere ciò che l'aspetta con l'arrivo di un patrigno (o di una matrigna) ed eventualmente di altri figli. Sapere in anticipo se deve cambiar casa, se dovrà condividere la sua camera, a chi obbedire, ecc. lascia del tempo per immaginare come andranno le cose e come potrà adattarvisi. E' altrettanto importante che i bambini facciano la conoscenza del futuro genitore (e fratellastri) prima di coabitare. E se c'è una forte incompatibilità è preferibile lasciar passare del tempo prima di iniziare una coabitazione.

 

Ci sono anche genitori che cambiano spesso partner formando delle coppie di breve durata, che vivono soltanto al presente alla ricerca di una soddisfazione immediata e non di un impegno che duri nel tempo. Questi genitori di passaggio si succedono nella casa dove vive il bambino dando vita a quella che qualcuno ha definito la "famiglia a composizione mutevole". In questi casi è difficile che si costruisca un sentimento di appartenenza o una storia famigliare perché i legami sono troppo precari. Nulla di sorprendente, quindi, se i bambini di queste famiglie si sentono perduti e non riescono a costruire una storia famigliare e individuale che abbia una sufficiente continuità.

 

 

Bibliografia

- Erikson E., Infanzia e società. Armando, Roma, 1989

- Festinger L., Teoria della dissonanza cognitiva. F. Angeli, Milano, 1978

- Garbar C. e Theodore F., Les familles mosaique. Nathan, Paris, 1991

- Lipiansky E.M., L'identité personelle. Ed. Sciences Humaines, Auxerre, 1998

- Mead G.H., Mente, sé e società Giunti, Firenze 1972

- Oliverio Ferraris A., Il terzo genitore. Vivere con i figli dell'altro. R. Cortina, Milano, 1997

- Roussel L. La famille incertaine. Ed. Jacob, Paris, 1989

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