Già nell’infanzia dedichiamo
una parte delle nostre energie psichiche alla messa in scena del nostro “sé”,
alla costruzione sociale della nostra identità personale, a comprendere ciò che
gli altri significativi si aspettano che siamo o che diventiamo. La
preoccupazione di riuscire a dare una immagine di noi stessi che sia convincente
e al tempo stesso in linea sia con le richieste degli altri (familiari, amici,
società) che con le nostre aspirazioni e inclinazioni aumenta nettamente nell’adolescenza
e ci accompagna tra alterne vicende per tutta la vita.
Secondo una metafora
di William James - il primo psicologo che ha affrontato in modo sistematico
questo tema - l’identità è un torrente che ha confini ben netti nei confronti
dell’ambiente che lo circonda; ha continuità lungo la sua lunghezza; si muove
autonomamente sotto il proprio peso e impeto. La perdita di uno o più di questi
tre aspetti del senso di identità è associato a un disagio, a una sensazione di
depersonalizzazione, a volte di panico. Si può avere l’impressione che i propri
confini si siano dissolti e gli altri possono ‘vedere la nostra anima’, la
sensazione che si è carenti nella coesione e nella continuità personale. Ma ci
si può anche ritrovare privi di obiettivi e di ruoli sociali o, al contrario,
imprigionati in ruoli troppo rigidi da cui si vorrebbe fuggire.
L’identità, come
vedremo, è una dimensione polimorfa, ha molte facce e molte dimensioni: può
essere individuale, di gruppo, sociale culturale, religiosa, etnica; può essere
gradita o sgradita, scelta o imposta, aperta o chiusa, portatrice di sicurezza
e di ordine oppure di angosce.
Inizieremo questo
nostro viaggio nei territori accidentati dell’identità partendo dal processo di
costruzione della personalità in età evolutiva. Parleremo poi dei
confronti-scontri tra etnie e culture diverse e delle strategie che si usano
per fronteggiarli. Rifletteremo, infine, sulla rappresentazione e realizzazione
di sé nella società contemporanea.
LA COSTRUZIONE (1°)
“Si decideva
del nostro futuro” ha detto un
tifoso per spiegare l’incendio del treno su cui il 24-V-99 morirono, vicino a
Salerno, quattro ragazzi. I fans della Salernitata erano inferociti per la
retrocessione della loro squadra. In
quegli stessi giorni, nella ex Jugoslavia, le milizie serbe ammazzavano,
cacciavano i kosovari e soprattutto cercavano di distruggerne l’identità. Facciamo
un salto indietro di alcuni decenni e troviamo che per sopravvivere molti ebrei
europei furono costretti a tenere nascosta la propria identità mentre altri
furono, al contrario, costretti a
cucirsi sugli abiti una stella gialla, segno della loro identità
religiosa.
Attraversiamo
l’oceano e andiamo negli USA. Nel 1980 John Lennon fu assassinato da un
ammiratore il cui obiettivo era quello di prendere il posto del cantante.
Nell’aprile del ‘99, invece, a Littleton (Colorado) due adolescenti armati di
mitragliette uccisero 13 persone, ferirono altri 20 compagni e poi si suicidano
nell’estremo tentativo di scrollarsi di dosso l’identità di “effeminati”,
assegnata loro dai machi della scuola.
Ma che cos’hanno in
comune fatti così diversi e lontani? Qual è il filo rosso che lega fatti
esemplari presi a caso tra i tanti possibili?
Il minimo comune
denominatore è l’identità. una dimensione della psiche che può spingere le
persone a comportamenti estremi pur di affermarsi di fronte a se stesse e al
mondo. I tifosi erano la Salernitana. Le tragiche vicende dei Balcani ruotano
intono all’identità etnica. L’identità religiosa fu il perno intorno a cui si articolò la persecuzione nazista
degli ebrei. Il fan di Lennon uccise il suo idolo per assumerne l’identità e
diventare visibile al mondo intero. Gli assassini-suicidi di Littleton fecero
una strage nel tentativo di liberarsi di una identità imposta e umiliante.
L’identità può
esprimersi a livello dell’individuo, del gruppo e della società, può subire
trasformazioni nel tempo, entrare in crisi, essere stabile o transitoria, forte
o debole. Nel corso della vita può capitare di perdere una identità e di
acquisirne un’altra, di sentirsi imprigionati in una identità imposta, di
desiderare quella di un'altra persona, di averne molte e anche di giocare con
esse. Stiamo, insomma, parlando di una realtà polimorfa, intorno a cui ognuno
di noi svolge un lungo e complesso lavoro a partire dai primi anni di
vita.
LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITA’ NELL’INFANZIA
Prima
della nascita un bambino esiste già nell’immaginario dei suoi genitori. Essi si
domandano di che sesso sarà, se assomiglierà al padre o alla madre. Scelgono il
nome. Fanno dei progetti e delle anticipazioni sul suo futuro. Dopo la nascita
lo osservano, gli attribuiscono tratti del carattere, intenzioni e attitudini.
Approvano, disapprovano, suggeriscono, incoraggiano, indirizzano, guidano,
propongono… insomma contribuiscono in
mille modi diversi all’impostazione della sua identità.
Un
neonato però non ha coscienza della propria identità ed è solo col passare del
tempo che impara a riconoscersi come individuo distinto. Questo apprendimento
avviene inizialmente attraverso il corpo. I bambini piccoli imparano a
localizzare le tensioni, le sensazioni, le emozioni nel loro corpo e a
distinguere ciò che è interno da ciò che è esterno (la mano dal giocattolo, gli
stimoli della fame dal cibo, i propri vocalizzi da quelli degli altri…).
L’esplorazione del corpo, la manipolazione degli oggetti, forniscono una prima
forma di coscienza di sé. Tra uno e due anni i bambini imparano anche a
riconoscere la propria immagine allo specchio e successivamente ad usare il
pronome “io”.
Nel
corso di questo processo evolutivo una tappa importante è quella dell’ “oggetto
permanente” (oggetto e persona che continua a esistere al di fuori del soggetto
e di qualsiasi contatto percettivo): da allora in poi il bambino sa che un
essere può restare identico a se stesso anche se cambia il contesto. Con
l’emergere dell’identità corporea compare anche quella di genere. I bambini
vogliono sapere se sono maschi o
femmine, se assomigliano a mamma o papà e naturalmente sono interessati ai modelli di femminilità e
di mascolinità che incontrano. Ciò che avviene a livello motorio, sensoriale ed
emotivo, avviene anche a livello cognitivo.
Tutto ciò non si verifica in solitudine, ma in un mare di
interazioni. Attraverso il “corpo a corpo” con la mamma il piccolo sviluppa una
percezione di sé come essere dipendente ma anche separato. René Spitz, che ha
studiato a lungo i bambini piccoli, ha
posto l’accento sulle interazioni precoci nella formazione dell’identità
sottolineando il ruolo di tre “organizzatori”: il sorriso che a
volte esprime uno stato interno e altre volte è una risposta a stimoli
esterni; l’angoscia dell’ottavo mese di fronte
a persone sconosciute che rivela come il bambino sia in grado di conferire una
identità alle persone; il no intorno ai due anni che consente al piccolo di opporre il
proprio Io a quello degli altri e quindi di differenziarsi. Insomma, nelle
prime fasi della vita l’identità emerge in un duplice movimento relazionale
fatto di avvicinamenti e opposizioni, aperture e chiusure, assimilazioni e
differenziazioni.
In
questo processo ha un ruolo rilevante l’identificazione.
I bambini si identificano con i genitori, i fratelli, le sorelle, gli amici,
gli ideali della famiglia e della cultura nazionale (eroi, personaggi mitici,
attori, ecc.) e in questo modo assimilano norme e modelli di comportamento.
Interiorizzano anche i modelli di comportamento dei gruppi dei pari e
sviluppano le prime forme di identità di gruppo. All’interno dei gruppi essi
occupano una posizione (di prestigio, di subordinazione, di parità…) e trovano
le prime conferme alla propria identità individuale.
Per
tutta l’infanzia il “noi” familiare ha un peso notevole per i bambini, che
capiscono quanto poco essi contino nella società degli adulti. Ciò spiega
perché essi tendano ad identificarsi con i modelli che trovano in famiglia più
di quanto non facciano gli adolescenti e perché la maggior parte di loro
desideri avere una famiglia “presentabile”, tale cioè da poter essere mostrata
ai compagni e di cui poter essere orgogliosi.
CRISI DI IDENTITA’
NELL’ADOLESCENZA
“Non
sono quello che dovrei essere e neanche quello che ho intenzione di essere,
però non sono quello che ero prima”. Questo aforisma, trovato in un
saloon di cowboy nel West e citato da Erik Erikson, noto studioso
dell’adolescenza, descrive in modo sintetico la realtà del preadolescente, così
come lui si vive e si autorivela nei suoi comportamenti, nel suo incamminarsi
verso un tipo di identità via via più autonoma dalla famiglia e autocentrata su
un progetto personale.
Erikson spiega anche come questa trasformazione non sia
immediata e come essa comporti il passaggio (“rottura”) da una fase di totale accettazione dei
valori parentali, “senza esplorazione e senza impegno” ad una fase di diffusione dell’identità in cui il
ragazzo/ragazza rifiuta l’identità infantile ma non si impegna ancora in scelte
di vita né esplora nuove forme di identità. A questa fase ne segue poi una
terza (moratoria) in cui
il giovane “esplora identità diverse senza però impegnarsi in scelte
definitive” e infine una quarta e ultima in cui egli raggiunge una identità
definitiva che gli consente di operare delle scelte e di assumersi, ormai
giovane adulto, impegni e responsabilità importanti nei confronti di sé e degli
altri.
Anche se non tutti percorrono completamente le tappe
indicate da Erikson, lo schema è utile per comprendere le dinamiche psicologiche
dei ragazzi. Essi vedono il loro corpo e le loro aspirazioni modificarsi
profondamente. Devono integrare queste trasformazioni all’Io e acquisire una
identità che tenga conto anche della sessualità. Sono spinti a distanziarsi dal
quadro familiare e a integrarsi in nuovi spazi di vita in cui fare evolvere la
propria identità. Questo spiega perché nelle culture tradizionali esistessero
dei riti di
passaggio il cui scopo era quello di facilitare il passaggio dalla
condizione di bambino, dipendente, appagato dalle fantasie di onnipotenza, a
quella di individuo maturo che può procreare, sposarsi, lavorare, scegliere,.
impegnarsi, assumersi delle responsabilità. Se questa trasformazione non si
verifica un giovane rimane negli stadi dell’ “identità diffusa” o di
“moratoria”, come di fatto si verifica per molte “adolescenze lunghe”: ragazzi
o ragazze che rimandano le scelte di vita e gli impegni, che continuano a
dipendere dai genitori, che non si decidono ad assumere una identità matura.
Quando l’identità è fragile, insistente o non definitiva, un
giovane può trovare una identità sostitutiva in personaggi dello spettacolo,
dello sport, della musica leggera; il che spiega il grande successo che hanno
presso il pubblico giovanile attori, sportivi, complessi musicali (in cui si
identificano) e anche la droga (e l’alcol) che consente di trasgredire, di
sottrarsi agli adulti, di entrare in un mondo diverso da quello infantile,
senza tuttavia dover compiere delle scelte o assumere degli impegni. Nelle fasi
di “diffusione” e di “moratoria”, l’identità la forniscono anche il gruppo,
l’amico e l’amica del cuore: coetanei che hanno esigenze, linguaggi, gusti e
storie simili e che, unendosi, trovano la forza per fronteggiare lo strappo con
l’identità infantile e prendere le distanze dai genitori senza sentirsi in
colpa.
In alcuni casi, il gruppo è una banda che
delimita un territorio, lo difende, ha dei capi, segue un proprio codice di
comportamento, adotta un “look” e affronta altre bande. Secondo Herbert Bloch
(autore di uno studio sulle bande giovanili) la banda assume il valore di un
rito di passaggio; tuttavia, se i riti iniziatici delle società tradizionali,
organizzati dagli adulti e obbligatori per tutti, favorivano la maturazione; le
bande generalmente non promuovono il passaggio all’età adulta (in esse vi si
trovano adolescenti molto cresciuti!). La banda tende infatti a restare fissata
ad un presente mitico o ad un passato idealizzato in cui sopravvive il senso di onnipotenza
infantile, ossia la tendenza a realizzare i propri desideri in un mondo
separato da quello reale. Maryse Esterle-Hedilbel (anch’essa autrice uno studio
sulle bande) vede invece nella banda una forma di socializzazione e una sorta
di termometro sociale: “un tentativo per dei giovani di ‘prendere posto’ in un vuoto sociale
ed educativo, una ricerca di punti di riferimento in una società dove nulla di
ciò che è stato previsto gli si confà”. In
questo senso la comparsa delle bande è un riflesso prezioso delle relazioni che
la società intrattiene con una parte dei giovani, e della crisi relazionale di
cui esse sono un’espressione.
IDENTITA’ O IDENTIFICAZIONE?
Il lettore si sarà già reso conto che l’identità è una
dimensione complessa, multiforme, sfaccettata e per certi aspetti sfuggente e
contraddittoria; quando si cerca di analizzarla si verifica infatti qualcosa di
analogo a quanto accade ad un biologo che guardi al microscopio una cellula: se
ne mette a fuoco una struttura deve rinunciare a vederne altre pure importanti,
che o scompaiono del tutto alla vista oppure appaiono sfocate.
Abbiamo appena iniziato a parlare di identità è già abbiamo
scoperto che si possono avere contemporaneamente più identità: individuale,
familiare, di gruppo. Altre identità sono quella di genere, etnica, religiosa,
culturale, ideologica, nazionale, regionale, professionale, di tifoso, ecc. La
cosa si complica ulteriormente quando si scopre che le diverse identità cui
ognuno di noi afferisce possono anche essere in contrasto tra loro, qualche
volta in maniera produttiva per l’individuo, altre volte in modo
controproducente. Così, quando ci si
sente sicuri all’interno di una collettività si tende ad affermare la propria
individualità; al contrario, quando si vivono dei conflitti o si ha la
sensazione di essere emarginati, si accentua il bisogno di assomigliare agli
altri, di fondersi con il gruppo. Il gruppo quindi (ma anche la famiglia, una
ideologia, una fede, ecc.) può costituire sia un freno all’identità personale
che un mezzo per realizzarla. Va anche detto che le varie identità che ci
connotano hanno valori o gradienti diversi: alcune hanno una importanza
primaria, mentre altre (ausiliarie) vanno più facilmente incontro a modifiche e
abbandoni.
Per capire se un gruppo o un’identità ausiliaria promuove
l’identità individuale oppure la limita è bene considerare la differenza che
esiste tra identità e identificazione. Ogni
volta che ci si identifica in un’altra persona o gruppo si diventa simili per
alcuni aspetti a quella persona o gruppo, ci si appropria dei suoi valori e
delle sue competenze, il che è il contrario dell’identità intesa come
espressione della propria singolarità. E tuttavia, nel corso della vita
(soprattutto in età evolutiva), l’identità passa, come abbiamo visto,
attraverso una serie di identificazioni che promuovono la crescita psichica.
Quando ci si identifica in qualcuno o in qualcosa è come compiere un’esplorazione
dell’altro o insieme all’altro. Questo viaggio è utile e in alcuni momenti addirittura indispensabile, se però
vogliamo costruire una identità personale coerente, dobbiamo, ad un certo
punto, tornare a noi stessi e salvaguardare la nostra continuità di soggetti.
Sembrerebbe, dunque, che per promuoversi, difendersi, essere riconosciuti dagli
altri e affermarsi, sia necessario passare attraverso delle identificazioni; ma
è anche necessario abbandonare queste identificazione per essere, restare o
diventare sé stessi.
Si è dunque allo stesso tempo uno e molti. L’individuo è
impegnato nello sforzo di realizzare una continuità nel cambiamento, il che non
è sempre facile: se si resta troppo ancorati al passato, può nascere una
contraddizione tra una certa immagine di noi stessi “d’altri tempi” e i
progetti che si vogliono realizzare. E’ questo, per esempio, un conflitto
frequente tra gli immigrati la cui identità di base - strutturatasi nel Paese
d’origine, a contatto con una particolare cultura, religione, famiglia ecc. -
diventa un ostacolo all’integrazione nel Paese di adozione. Ma può anche
accadere l’inverso, che le persone avvertano la necessità, sia pure dolorosa,
di staccarsi dal passato per evolvere, ristrutturare la propria identità in
vista di raggiungimenti diversi e nuovi progetti di vita.
D’altro canto, nel corso di una vita la coscienza di sé
viene spesso ridefinita da fattori come la scelta della professione, il
matrimonio, la maternità/paternità, i ruoli sociali assunti nella società, le
affiliazioni ideologiche e religiose, lo stato di salute, gli eventi personali.
Tutti questi fattori possono modificare in misura maggiore o minore l’identità,
l’immagine di sé e l’autostima. Possono, qualche volta, provocare una vera e
propria crisi. Insomma, l’identità, come concordano ormai tutti gli studiosi,
non è un attributo immutabile ma un processo in divenire, mai completamente
compiuto, soggetto a ristrutturazioni.
LE MACROTRASFORMAZIONI DELL’ IDENTITA’
Nella
società tradizionale chi nasceva nobile tale sarebbe rimasto per tutta la vita:
nobili sarebbero stati anche i suoi figli e i figli dei figli. Chi nasceva
contadino aveva scarsissime probabilità di occuparsi di qualcosa di diverso del
lavoro dei campi e così era per tutte le altre attività. L’identità familiare
era decisamente la più importante: si veniva indicati come figli di…, fratelli
di…, cognati di… Il poter essere collocati in una rete di rapporti di parentela
era il fattore che attribuiva identità ai singoli. Uomini e donne avevano
diritti e doveri diversi. L’identità, con tutti i suoi corollari, non poteva essere
cambiata (se non in casi eccezionali) ma soltanto accettata e non era soggetta
a discussione. Termini come “crisi di identità”, “anonimato”, “stima di sé”,
“autorealizzazione”, non esistevano.
Con
la modernità, l’identità individuale non coincide più con quella del clan,
della famiglia, della casta. Si diffonde l’idea di poter contribuire
attivamente alla costruzione della propria identità. Molti di coloro che
migravano nel Nuovo Mondo scoprivano di poter costruirsi identità nuova di
zecca. Questa libertà andava di pari passo con una maggiore consapevolezza di
sé e, di conseguenza, anche con l’emergere di dubbi, stati d’ansia e
inquietudini. Quando l’identità era data alla nascita una volta per tutte c’era
ben poco da fare. Quando invece si incominciò a pensare che potesse esser
costruita, ognuno incominciò a sentirsi responsabile delle proprie scelte, ad
angustiarsi se non realizzava le proprie aspirazioni, a tormentarsi se non
riceveva i riconoscimenti che si aspettava.
Secondo le regole della modernità, sul finire dell’adolescenza l’identità individuale si struttura (liberamente) intorno all’occupazione lavorativa, alla famiglia, alla propria posizione nella sfera pubblica, alle scelte ideologiche e religiose. L’individuo si impegna in scelte fondamentali e coerenti che lo definiscono per il resto della vita. Oggi però queste regole appaiono meno nette e vincolanti. Abbiamo visto come molti giovani di questi anni restino a lungo nella fase adolescenziale dell’ “identità diffusa”, apparentemente appagati dal rapporto con i genitori, dalla possibilità di non assumersi impegni definitivi, di mantenere un atteggiamento ludico nei confronti della vita. E’ in atto, come alcuni sostengono, un cambiamento in direzione di una visione “postmoderna” dell’esistenza?
Dare una risposta definitiva non è facile, sta di fatto che sono in aumento coloro che ritengono che la realizzazione di sé possa avvenire anche nel mondo degli hobbies, negli spazi del tempo libero, nella sfera del sesso (omosessualità, lesbismo, gusti particolari), del corpo e persino delle diete… Passando da una società fondata sulla produzione a una società fondata sul consumo, anche la definizione dell’identità ha subìto dei cambiamenti. A questa trasformazione ha contribuito anche il mondo dello spettacolo che offre un numero crescente di personalità, di “tipi”, di identità nuove e cangianti. Le mode, la nascita di professioni del tempo libero, un crescente benessere economico, la disoccupazione, sono tutti fattori che favoriscono una maggiore elasticità nei confronti dell’identità individuale: si ammette di poterla cambiare spesso. La cantante Madonna è un caso emblematico: gli esordi la vedono nei panni della ‘ragazzaccia’, volgare vestita male, poi volta pagina e si presenta al pubblico in una versione patinata, imitando lo stile di Vogue; il suo stile vira poi verso l’erotismo fino a sfiorare la pornografia, interpreta la ballerina di un peep show e dichiara di essere bisessuale; dopo l’inizio degli anni Novanta adotta un look più raffinato ed esotico; durante la gravidanza incarna il tipo della femmina dominatrice e autosufficiente; col film Evita entra nei panni di un’eroina forte e carismatica; l’ultima versione è misticheggiante, severa, con tatuaggi sulle mani stile new-age.
Tutto ciò comporta vantaggi
e rischi. Il vantaggio maggiore è che ognuno può sempre dare una svolta alla
propria vita; che si può ricominciare tutto da capo. Nessuno più si scandalizza
se una coppia che ha giurato fedeltà si separa di lì a poco e i due ex vanno a
formare nuove coppie e nuove famiglie. Sono anche ammessi cambiamenti drastici
nell’attività lavorativa, nello stile di vita. Il rischio maggiore è, invece,
quello di uno stile di vita frammentato, disimpegnato, di una mancanza di
coerenza che si traduce in dispersione, nella impossibilità di seguire un
progetto, di realizzare alcunché. Un giovane può non raggiungere mai una identità matura e continuare, ormai
cresciuto, a saltabeccare da un’identità all’altra sull’onda delle mode.
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REGRESSIONE ADATTIVA AL SERVIZIO DELL’IO
Secondo uno studio degli
psicologi Dan Bilsker e James Marcia, nella fase dell’adolescenza che Erik Erikson
definì moratoria i giovani tendono a sperimentare nella
fantasia, introspettivamente, forme di identità personale che però non assumono
nella vita quotidiana. Questa attività al tempo stesso “regressiva” e di
“sintesi”, che ha elementi in comune con il gioco e la creazione
artistica, ha una funzione adattiva
importante per il processo di costruzione dell’identità in quanto connette i
desideri e gli obiettivi del giovane con le possibili modalità di realizzazione.
Proprio perché non ha ancora fatto delle scelte concrete e stabili, il ragazzo
che si trova in questa fase dello sviluppo tende ad essere più flessibile e
adattabile di quanti invece, assunti concretamente degli impegni (di lavoro,
famiglia, carriera, ecc.) si sentono obbligati a difendere la propria scelta
identitaria, e anche di quanti, ancora fortemente dipendenti dai genitori, sono
legati alla loro identità infantile in modo rigido e immaturo.
Questa flessibilità, questo
giocare con l’identità al di fuori degli impegni, dà un senso di libertà e di
ebbrezza che contribuisce a spiegare – insieme ad altri fattori – il fenomeno
delle adolescenze interminabili.
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“Rivendico
questa attitudine che tutti quanti abbiamo a non essere coerenti con noi
stessi, a non essere un blocco omogeneo in cui la personalità sarebbe
definitivamente fissata […] questa possibilità di essere attraversati da
correnti diverse e di sottrarsi al fanatismo dell’identità e alla ripetizione”.
Questa dichiarazione di emancipazione individuale è
dell’etnologo François Laplantine, autore del volume Transatlantique, un inno
alla multi-appartenenza in cui descrive la condizione dell’uomo contemporaneo
che, al centro di più poli di attrazione, diviso tra diverse comunità e vite
parallele, deve continuamente entrare e ritirarsi da ognuna delle sue sfere di
appartenenza “da
un lato l’attaccamento al proprio territorio, alla cultura, alla professione,
al marito, alla moglie; dall’altro lo strappo e il distacco”.
Secondo gli studiosi dell’identità, noi siamo degli esseri
compositi, afferiamo a gruppi e ruoli sociali diversi e la nostra identità è
“stratificata”. L’India contemporanea, nota Laplantine, offre un buon esempio
di stratificazione. La maggior parte degli indiani vive tra due sistemi di
ruoli, tra due grammatiche culturali differenti: una legata al sistema delle
caste, ben radicato malgrado sia stato ufficialmente abolito, l’altra è quella
della modernità, ugualitaria e cosmopolita. Dentro casa molti bramini
continuano a parlare la lingua della casta e rispettano il regime vegetariano;
ma quando sono al di fuori della sfera familiare essi parlano indù o inglese e
mangiano la carne di montone, passando così da un ruolo all’altro con estrema
disinvoltura.
Lo stile di vita femminile occidentale è un altro esempio di
“stratificazione”. Molte donne sono impegnate in un continuo ‘zapping’ fisico e
mentale tra educazione dei figli, occupazioni professionali, servizi per la
casa, relazioni amicali e sociali, vita coniugale e progetti personali: esse
vivono la loro multiappatenenza con un certo affanno, ma non rinuncerebbero a
nessun ruolo perchè si sentirebbero private di una parte della loro identità,
femminilità e libertà.
Esistono dunque in ogni persona più identità (reali o
potenziali) che possono produrre scelte strategiche, compromessi, transazioni
(come negli esempi degli indiani e delle donne), tensioni, conflitti. Questa
multi-appartenenza fa sì che l’individuo sia spesso alla ricerca di sé stesso,
di un Io più stabile o meno problematico. Vedremo nel prossimo articolo quali
strategie vengono messe in atto per fronteggiare i conflitti di identità, la
svalorizzazione e anche per darsi una identità gratificante.
.
Bibliografia
Bilsker D. e Marcia J. (1991), Adaptive regression and ego
identity. J. of Adolescence, 14,
75-84
Bloch H. e Niederhoffer (1974), Les Bandes d’adolescents.Payot
Caillé A. cit. da J-F Dortier
(1994), L’individu dispersé et ses identités multiples. Sciences
Humaines, n° 37
Erikson E.(1968), Identity: Youth and Crisis. N.Y., Norton
Esterle-Hedilbel M (1998), “Le
bandes de jeunes”.In L’identité, J-C Ruano-Borbalan (ed.),
Sciences Humaines, Auxerre
(2°)
VIAGGIO
NELL’ IDENTITA’:
LA DIVERSITA’
Un elemento problematico dell’identità, già notato dai
filosofi della Grecia Antica, è che in un’unica parola si indica ciò che è identico (a sé) e ciò che è diverso (da altri): riconosciamo unicità
ad una persona in quanto essa ha delle componenti proprie che la rendono
diversa da altri. L’identità nasce da un rapporto dell’individuo (con la sua
soggettività e la sua storia) con gli altri e non si costruisce soltanto
intorno alla domanda “chi sono io?” ma anche intorno alla domanda “chi sono io
in rapporto agli altri, chi sono gli altri in rapporto a me?”. Gli altri, le
loro valutazioni, le loro conferme, rifiuti o disconferme, incidono sulla
costruzione dell’identità, nelle sue diverse sfaccettature.
In un volume che parla del
conflitto tra serbi e croati del 1993 (The
Narcissism of Minor Differences) lo
scrittore Michael Ignatieff racconta questa storia:
…le
quattro del mattino. Mi trovo presso il comando di una milizia locale serba, in
una cascina a 250 metri dal fronte Croato. Ogni notte ci sono delle sparatorie,
a volte con i bazooka. E’ una guerra di villaggio. Tutti si conoscono: sono
andati a scuola insieme; prima della guerra alcuni di loro lavoravano nello
stesso garage; davano gli appuntamenti alle stesse ragazze. Ora ogni notte si
chiamano alla radio e si scambiano insulti, per nome. Cercano di uccidersi l’un
l’altro.
Sto
parlando con dei soldati serbi - stanchi, riservisti di mezz’età, che
preferirebbero stare a casa propria a letto. Cerco di capire perché dei vicini
dovrebbero uccidersi a vicenda. Chiedo che cos’è che rende Serbi e Croati tanto
diversi.
Un
uomo estrae un pacchetto di sigarette dalla sua giacca kaki. “Guarda, sono
sigarette serbe. Laggiù fumano sigarette croate”
“Ma
sono entrambe sigarette, giusto?”
“Sei
straniero, non puoi capire”, scuote le spalle e incomincia a pulire la sua
machine pistol Zastovo.
Ma
la domanda che gli ho fatto l’ha infastidito, così passati un paio di minuti,
egli lancia l’arma sul lettino in mezzo a noi e dice, “Le cose stanno così.
Questi croati pensano di essere meglio di noi. Pensano di essere dei raffinati
europei e cose del genere. Sai cosa ti dico? siamo tutti quanti spazzatura
balcanica.”
In
diverse parti del mondo l’appartenenza etnica fa parte di quelle “risorse” o
dimensioni della psiche umana che le formazioni politiche utilizzano per
conquistare il potere. Etnia, razza, religione, nazionalità sono concetti
aggreganti soprattutto in periodi di incertezza. Nelle mani del potere, che nei
momenti critici ha bisogno di trovare degli attori identificabili che lottino
per una “causa”, la costruzione identitaria (etnica, razziale, religiosa, ecc.)
diventa una specie di Sesamo con cui ottenere la disponibilità psicologica degli
individui a impegnarsi attivamente, anche se questi stessi individui, quando
riflettono o pensano alle loro esperienze dirette, non sono poi in grado di
spiegare quale sia la reale differenza tra sé e il nemico, come nel caso del
soldato di Ignatieff.
Serbi
e croati hanno vissuto in pace in un unico Stato per cinquant’anni condividendo
spazi, lingua, cultura, abitudini quotidiane: sono cresciuti insieme, sono
andati a scuola insieme, hanno lavorato insieme, hanno fatto matrimoni misti.
“Siamo tutti quanti spazzatura balcanica” conclude il soldato, ma nel contesto
di decomposizione della ex federazione jugoslava, oltre alla volontà dei
politici di realizzare una grande Serbia si sono creati dei fenomeni di
paranoia collettiva per cui una parte
consistente della popolazione serba si è convinta, da un lato, dell’esistenza
di un complotto fomentato da Stati Uniti, Europa occidentale (in particolare la
Germania unificata), Islam e Vaticano e, dall’altro, di dovere rivendicare una
differenza da altre etnie jugoslave in nome di un passato storico che risale ad
epoche medievali. Questa “paranoia” è evidente anche nel ragionamento del
soldato che inizia con l’affermazione che serbi e croati sono totalmente
diversi, persino nelle sigarette che fumano, e prosegue con la lamentela che i
Croati ritengono di essere migliori dei Serbi e più simili agli europei.
E’
un esempio di identità relazionale: l’identità serba, in questo caso, si fonda
su qualcosa che è esterno, ossia su un’altra identità che, essendo diversa e in
opposizione, fornisce la condizione per esistere. Essere serbi significa non
essere croati. L’identità viene definita dalla differenza. Si tratta però di
una differenza problematica che rivela una incoerenza tra la rivendicata
diversità e la conoscenza che nasce dalla frequentazione quotidiana dei croati.
Il soldato è confuso e le sue parole sono contraddittore. Il bisogno di
appartenere ad un “noi” riconoscibile è però molto forte in un momento in cui
la gente della ex Jugoslavia si impoverisce, perde i punti di riferimento e i
padri hanno una influenza sempre più scarsa sui figli.
Nella
guerra contro i croati, il soldato di Ignatieff non ha trovato soltanto
l’identità etnica (un ‘noi’ cui fare riferimento), ma anche l’identità di
guerriero, ossia il tipico ruolo maschile della tradizione. E le sigarette,
fumate dagli uomini di entrambe le parti, ne sono il simbolo (nella canzone dei
Rolling Stones Satisfation si dice ad
un certo punto lui non può essere un uomo
perché non fuma le mie stesse sigarette…). Le donne sono incluse nello
scenario soltanto in relazione agli uomini (davano
gli appuntamenti alle stesse ragazze…), anche se nella realtà concentra ci
sono delle collocazioni nazionali ed etniche anche per le donne.
Insomma,
le guerre dei Balcani fatte in nome delle differenze etniche, ci dicono quanto
le persone possano investire in forme simboliche di identità collettiva anche
se ciò può comportare una buona dose di incoerenza. I reali motivi delle guerre
sono il possesso delle terre e delle ricchezze, ma l’identità collettiva è una
leva forte per i gruppi al potere, al punto da potere travolgere relazioni
individuali molto radicate come quelle di vicinato, di villaggio e le amicizie
di lunga data.
Continuità: consente di restare se stessi nel corso del tempo, identici o
somiglianti a noi stessi.
Coerenza: è la rappresentazione più o meno strutturata che abbiamo di noi e che
gli altri hanno di noi.
Unicità: sentimento di essere originale, unico. Può essere un tratto positivo
ma può anche indicare chiusura e rifiuto degli altri.
Diversità: l’identità ha molte sfaccettature e ognuno di noi ha svariate
appartenenze; ciò può costituire una ricchezza (sfaccettature articolate dei
nostri ruoli multipli) oppure una scissione, una frammentazione dell’Io.
Cambiamento: l’identità si realizza attraverso l’azione, i comportamenti; bisogna
saper gestire il paradosso del cambiamento nella continuità.
Positività: tutti hanno bisogno di pensare di valere, di stimarsi e di sentirsi
stimati e riconosciuti, in caso contrario la costruzione dell’identità diventa
problematica.
Nella vita di tutti i giorni
questi tratti (continuità, positività, coerenza…) subiscono delle crisi, dei
maltrattamenti… ci si può sentire privi di valore; si può constatare che molti
dei nostri comportamenti sono in conflitto tra di loro, che bisogna cambiare
rotta; si possono vivere dei conflitti di lealtà nel confronto del nostro
passato.... vista in quest’ottica l’identità costituisce uno sforzo costante
per mantenere la continuità nel cambiamento, il che non è sempre facile.
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ANTAGONISMI E APPARTENENZE
NEL GIOCO DEL CALCIO
Il
gioco del calcio è diventato - da circa mezzo secolo (la codifica delle regole
risale al 1863) - un terreno privilegiato per la celebrazione delle
appartenenze e degli antagonismi collettivi. Dal campionato nazionale a quello
del mondo alle competizioni di coppa ecc., ogni partita fornisce ai tifosi la
possibilità di simbolizzare un qualche aspetto della loro identità (locale,
regionale, nazionale, professionale…). Il sentimento di appartenenza si
costruisce, anche in questo caso, in un rapporto di opposizione. Sul campo da
gioco viene rappresentata una sorta di guerra ritualizzata tra opposte fazioni,
dove non mancano gli appelli alla mobilitazione (delle tifoserie), l’insistenza
enfatica sulle differenze “storiche” tra le squadre, gli emblemi bellici
(stendardi, striscioni, coccarde).
Per
un tifoso il senso di appartenenza può nascere anche da una scelta ideologica,
dalla tradizione familiare, dal prestigio della squadra e da una serie di
“contenuti”, come lo stile di gioco, il lavoro d’équipe e anche l’immagine,
radicata nel tempo e stereotipata, che una collettività ha delle diverse
squadre. Il gioco sobrio della Juventus, ad esempio, si differenzia da quello
spettacolare del Napoli: i giovani tifosi dell’una e dell’altra parte scoprono
man mano queste differenze e si identificano con il loro stile di gioco, il che ha anche l’effetto di legarli
sentimentalmente alla squadra, alla
città, alla regione, alla fabbrica, ai giocatori.
Ma le differenze ci sono anche tra i tifosi di una stessa squadra, che pure condividono la stessa effervescenza collettiva. Le differenze riguardano i posti occupati allo stadio (tribuna, gradinate, curva), il tipo di tifo, le preferenze per i singoli giocatori, la “scala di valori” che porta ad apprezzare un tipo di gioco più di un altro. Queste differenze sono modulate dalla provenienza sociale, dall’età, dallo stile di vita e dalla personalità del tifoso. Ad esempio, la preferenza per un giocatore piuttosto che un altro, dipende dal modo in cui il tifoso valuta una serie di caratteristiche del calciatore (forza, furbizia, finezza, disciplina, solidarietà, gusto del rischio, ecc.): valutazioni che consentono di manifestare una propria autonomia e quindi una identità separa, diversa non soltanto da quella dei tifosi di altre squadre, ma anche dei tifosi della propria squadra. Il tifoso trova quindi nel gioco del calcio forme diverse di identità; in alcuni momenti partecipa ad una collettiva, in altri, invece, si differenzia dal proprio gruppo e acquista una identità personale.
Il
calcio fornisce anche uno spettacolo delle identità e dei valori che
caratterizzano la nostra epoca. Esalta il merito delle star, la performance, la
competizione tra uguali (lo status non deriva dalla nascita, ma lo si conquista
sul campo). Valorizza il lavoro d’équipe, la divisione dei compiti, la capacità
di coordinarsi e di solidarizzare. Sottolinea il ruolo che hanno la fortuna,
l’astuzia e la giustizia (più o meno discutibile dell’arbitro) nel
raggiungimento del successo. Insomma, nel calcio come nel mondo contemporaneo,
riuscita individuale e riuscita collettiva coesistono, con tutte le loro
contraddizioni.
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Box
Per il sociologo Alain Caillé afferiamo a 4 grandi zone concentriche di appartenenza.
·
Nella prima ci comportiamo come individui cercando
di realizzare dei fini (interessi e
progetti) personali.
·
Siamo però anche inseriti
nella rete della socialità primaria (famiglia, luogo di lavoro) che incide fortemente
sul nostro comportamento e la nostra identità.
·
Ognuno di noi è membro di un qualche macrosoggetto collettivo
(cittadino di una nazione, membro di una comunità religiosa, ecc.); le identità
etniche, religiose, politiche, nazionali, sono delle comunità di socializzazione secondaria che si
sovrappongono a quelle di socializzazione primaria.
·
Siamo, infine, parte dell’Europa, di una cultura occidentale
e membri della specie umana.
A queste appartenenze ognuno attribuisce un peso diverso:
c’è chi si sente più cittadino italiano che europeo, chi considera più
pregnante l’identità familiare, chi è pronto a sacrificare la propria vita per
il credo religioso, ecc.
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TRA DUE
CULTURE
Ognuno tende a modellare la
propria identità sulle richieste e i valori dell’ambiente e della cultura in
cui è immerso; ma che cosa succede a chi, cresciuto in un dato ambiente emigra
in un Paese molto diverso come lingua, cultura, religione e stile di vita?
Quali strategie identitarie può mettere in atto per far fronte alle richieste
del nuovo ambiente, al rischio di sentirsi emarginato, svalorizzato?
Gli studi condotti sugli
immigrati (da Isabelle Taboada-Leonetti e Hanna Malewska-Peytre, Carmel
Camilleri e altri) dicono che quando gli individui (o il gruppo) soffrono per
la contraddizione che esiste tra le prescrizioni della cultura d’origine e
quelle del paese ospitante, possono fare ricorso a strategie diverse, ma
prevedibili. Vediamole
·
Un
primo gruppo di soggetti evita di
considerare i termini della contraddizione. Può allora (a) isolarsi
e, pur rifiutandoli interiormente, adottare comportamenti e atteggiamenti in
accordo con la cultura del paese d’adozione oppure, pragmaticamente, (b) alternare
i codici adottare cioè un codice tradizionale a casa e un altro codice nel
contesto professionale, a scuola, nei rapporti amministrativi, ecc. evitando di
fare confronti e di prendere posizione. Camilleri riporta l’esperienza di un
professore di filosofia francese che ad un certo punto del corso fu preso da
scrupolo nei confronti di un gruppo di studenti islamici molto religiosi.
Chiese perciò se per caso le sue lezioni non li infastidissero. “Non si
preoccupi, è molto semplice, dopo aver passato l’esame dimenticheremo tutto!”.
E’ questo un bell’esempio di compartimentazione:
gli allievi erano spinti da una motivazione utilitaristica ma forte a superare
l’esame (per ottenere un diploma) e quindi a imparare la filosofia secondo il
codice culturale francese, anche se ciò era in completa opposizione con ciò in
cui credevano. La prova della compartimentazione
(punto estremo dell’alternanza di codici) era l’oblio programmato in anticipo
degli apprendimenti.
·
Un
secondo gruppo unisce simultaneamente i
due codici con una strategia priva
di logica razionale ma funzionale all’integrazione (sincretismo). La cecità logica nasce da una serie di compromessi
con se stessi e da forme di compartimentazione e di frammentazione delle
proprie opinioni e atteggiamenti; l’obiettivo (per lo più inconscio) consiste
nell’ignorare le contraddizioni, tutto ciò che disturba o che può creare
tensioni. Per esempio, un giovane di religione islamica può, seguendo il codice
occidentale, scegliersi la moglie (invece di sposare la donna scelta dai
genitori) ma poi, una volta sposato, uniformarsi al codice tradizionale di
marito e di padre. Analogamente, può astenersi dal bere alcolici con i
correligionari e bere quando è con gli stranieri. In altre parole, è la
strategia della massimizzazione dei
vantaggi che fonde insieme due codici opposti.
·
Un
terzo gruppo di soggetti cerca di
sintetizzare, razionalmente, elementi culturali opposti usando due tipi di
argomentazioni strategiche. Nel primo caso si cerca di superare la
contraddizione – per es. l’uguaglianza tra i sessi – attraverso una rilettura della tradizione in cui si
distingue lo “spirito” dal significato letterale; si può così arrivare a
sostenere che la concezione occidentale della donna non si oppone ai ruoli
tradizionali di sposa e di madre islamica, ma consente al contrario di
assolverli meglio. Nel secondo caso la strategia usata per giustificare
razionalmente un compromesso è la dissociazione
(si elimina la contraddizione tra gli elementi culturali separandoli): per
esempio, si critica una certa condotta tradizionale dei genitori continuando
però a rispettarli e a relazionarsi a loro secondo il codice tradizionale
perché “non è colpa loro, sono abituati
così”; oppure si aderisce a un valore rilevante di un codice ma ci si
comporta secondo il codice opposto
sostenendo la legittimità di separare il principio dalla sua
applicazione in determinate condizioni. Per es. “in linea di principio sono per l’uguaglianza dei sessi, ma con le
nostre donne non è possibile”.
Perché, ci si può domandare,
le persone adottano strategie diverse? La risposta è che mentre alcuni tendono
a considerare i valori della cultura, della religione, della società al loro
personale servizio, altri invece attribuiscono a quegli stessi valori un
significato universale che trascende gli interessi dei singoli.
REAGIRE ALLA SVALORIZZAZIONE
Abbiamo visto le strategie
che vengono messe in atto per conciliare due culture e codici comportamentali
diversi, che cosa succede quando un individuo si sente svalorizzato, non
capito, emarginato dalla maggioranza?
Gli attacchi all’identità
sono dolorosi, più di quanto comunemente si voglia ammettere. La sofferenza
psicologica che nasce da questa condizione porta l’individuo a porre in atto
una serie di strategie, alcune più efficaci di altre, alcune “interiori” e
altre “esteriori”. Ancora una volta gli studi condotti sugli immigrati,
consentono di evidenziare i tratti fondamentali delle dinamiche legate a questo
importante aspetto dell’interazione sociale.
Una prima strategia (“interiore”) consiste nel negare la discriminazione, nel minimizzare, nel fingere di non vedere o sentire; oppure nel disinteressarsi degli altri chiudendosi totalmente nel proprio mondo come fanno integralisti e fondamentalisti.
Quando la pressione esterna è molto forte si può anche finire per accettare la svalorizzazione interiorizzando le valutazioni negative e gli atteggiamenti del gruppo maggioritario. E può anche accadere che, in una sorta di rilancio, l’individuo accentui lo stigma assegnatogli adottando in una identità deviante, come quella di delinquente, il che ha l’effetto di produrre, tra sé e il paese di adozione, un divario sempre maggiore.
L’aggressività, infine, è una forma di reazione che, quando è rivolta all’interno, produce disturbi psicologi e autodistruzione e quando è rivolta all’esterno porta a scontri e conflitti violenti.
Le strategie “esteriori”
sono solitamente più elaborate. Una prima possibilità consiste nell’optare per
l’assimilazione, il cosiddetto passing
(passare dall’altra parte della barriera razziale, nazionale, religiosa); si
cerca di modificare il linguaggio, gli atteggiamenti, il modo di vestire, il
cognome e, per quanto è possibile, anche alcuni tratti fisici come il colore
dei capelli o il taglio degli occhi. Si adottano usi e abitudini locali e si
prendono le distanze dalla comunità d’origine. Questa scelta può generare forti
tensioni con la comunità d’origine e portare anche alla rottura con i
familiari.
Una strategia opposta consiste
invece nel rivalorizzare le proprie caratteristiche individuali, le origini, la
cultura del proprio paese. Il gruppo di appartenenza viene idealizzato, il
paese ospitante è criticato. Chi adotta questa strategia non corre il rischio
di sentirsi in colpa per avere “tradito” la famiglia, il clan, gli amici
d’infanzia. Dietro a questa scelta c’è spesso il desiderio di diventare attori
sociali, di uscire cioè dalla passività prendendo parte alla vita politica.
Lavorando alla ricerca di
una identità forte e condivisibile, si può operare un ribaltamento degli schemi
e degli stereotipi: ci si può per esempio autodefinire “arabi”, “asiatici” o
“neri” dando a questi termini una valenza semantica diversa da quella che aveva
in precedenza. Si può coniare una denominazione del tutto nuova, come nel caso
dei Black British in Gran Bretagna in
cui confluiscono minoranze molto diverse tra loro come pakistani, indiani,
giamaicani e vari tipi di asiatici, un tempo definiti dal potere politico e
amministrativo “persone di colore” o “minoranze etniche”. L’identità Black in questo caso non si riferisce a
un colore ma ad una collocazione sociale.
E per finire, vi sono strategie “intermedie”, che sul piano pragmatico favoriscono l’integrazione. Una prima possibilità consiste nell’acquisire una identità critica (si accettano certi giudizi negativi e se ne rifiutano altri) il che consente di adottare dei tratti della cultura di adozione conservando referenze e valori della cultura d’origine. Una seconda possibilità si basa invece sulla ricerca di elementi comuni o punti di contatto con il gruppo maggioritario senza rinunciare alle proprie prerogative; questi punti possono essere l’età, la convergenza ideologica o religiosa, le mansioni lavorative comuni, la partecipazione alle stesse gare sportive, la condivisione di valori transculturali (pacifismo, salvaguardia della natura, logica meticcia, ecc.).
Tutte queste strategie -
accentuare o ridurre la diversità culturali, contrastare la svalorizzazione -
hanno lo scopo salvaguardare l’identità, un tratto fondamentale della
personalità che consente di esserci nel mondo. Esse sono state studiate negli
immigrati ma non sono certo esclusive di questa realtà sociale. Le ritroviamo
in tutti i contesti sociali. A scuola, sul luogo di lavoro, in famiglia,
all’interno delle associazioni, nei gruppi ideologici, religiosi, sportivi,
sindacali, tra amici, ovunque ci siano delle persone ci sono anche delle
transazioni che ruotano intorno all’identità individuale e di gruppo. La
negazione, ad esempio, l’assunzione di una identità deviante o negativa
(fondata su tutto ciò che non si
dovrebbe essere) oppure autosvalutante non sono strategie infrequenti in
bambini o ragazzi che si sentono ignorati o svalorizzati nel loro ambiente,
circondati da un clima di sfiducia e di sospetto o fortemente incoerente e
disorientante. Piuttosto che essere ignorato un ragazzo può preferire che si
rida di lui, che lo si maltratti, oppure che lo si consideri pericoloso,
“cattivo”, predestinato al male, perché in questo modo si sente particolare,
acquisisce una qualche forma di identità.
Le transazioni possono
essere esplicite o mascherate - come ci hanno insegnato gli psicologi di Palo
Alto - ma hanno sempre una importanza
vitale. Una identità in crisi è come una malattia, mina la personalità alla
radice. Bisogna trovare un rimedio. E’ dallo stato di salute di questa
dimensione psichica che originano sicurezze o insicurezze, discriminazioni,
scotomizzazioni, incongruenze, rivendicazioni, scontri tra bande, lotte di religione
e per l’autoaffermazione. Nel prossimo numero vedremo come si possa affermare
l’identità attraverso il corpo… e l’autodisciplina.
Bromberger C. e al. (1995), Le Match de football.
Ethnologie d’une passion partisane à Marseille, Naples et Turin. Maison des
sciences de l’Homme, Paris
Camilleri C. (1997), Les stratégie identitaires des immigrés. Sciences Humaines, n.15
Malewska-Peytre H. (1999), Le processus de dévalorisation de l’identité et
les stratégies identitaires. In AAVV Stratégie identitaires. PUF, Paris
Taboada-Leonetti I. (1999), “Stratégie identitaires et minorités”. In AAVV Stratégie
identitaires. PUF, Paris
Tap P. (1998), “Marquer sa différence”. In J-C Ruano-Borbalan (Ed.) L’identité. Ed. Sciences Humaines, Auxerre
Watzlawick P. e al. (1967), Pragmatica della comunicazione umana.
Astrolabio, Roma
(3°)
VIAGGIO
NELL’ IDENTITA’:
LA RAPPRESENTAZIONE
Nel contesto socio-culturale di questi anni l’individuo - immerso in un flusso euforizzante di sensazioni e modelli di identità diversi - vive una sorta di dilatazione dell’Io che potenzia il desiderio ma indebolisce l’identità. E’ quanto spiegano filosofi e semiologi come Baudrillard, Deleuze, Guattari, Jameson e Lyotard.
Emblematica di questa nuova condizione è la MTV (la tv musicale) dove i brani di musica rock sono accompagnati da un susseguirsi ininterrotto di immagini quasi sempre intense, spesso allusive a problematiche sociali e sessuali, al mondo della pubblicità e dello spettacolo, ma prive di sistematicità e di significati narrativi. Nella MTV i personaggi si aggirano in un presente senza tempo e senza progettualità. La loro identità, individuale e di gruppo, è pura rappresentazione, apparire, trasformazioni fine a sé stesse, estetica.
Il mondo reale è come la MTV? E’ possibile avere un progetto di vita stabile? Si può costruire la propria identità sull’apparenza? Insomma, fino a che punto si può giocare con l’identità?
LIBERI DIETRO LA MASCHERA
In tempi lontani l’identità
era data per intero alla nascita. Il progetto di vita individuale era segnato
da forze esterne, non dalla volontà dai singoli. La tradizione, l’appartenenza
familiare, l’autorità, avevano la meglio sulle inclinazioni individuali.
Soltanto in particolari periodi dell’anno era possibile uscire dal ruolo
assegnato e realizzare desideri e aspirazioni represse. Ciò accadeva nelle
feste, soprattutto in quelle che consentivano un travestimento come il
carnevale. La maschera era il veicolo attraverso cui veniva realizzata questa
trasformazione temporanea. Per secoli il carnevale è stato il momento in cui ci
si poteva abbandonare ad ogni tipo di eccesso ed assumere, per qualche giorno,
una identità differente. Questa valvola di sfogo esisteva già nell’antica Roma,
durante i saturnali, le feste di dicembre in onore di Saturno dove, oltre ad
uno scambio di doni, schiavi e padroni invertivano i rispettivi ruoli.
Il processo di costruzione
della propria identità rappresenta una novità della modernità: ma per tutto
l’Ottocento e buona parte del Novecento, coloro che godevano di questa libertà
psicologica dovevano, una volta individuato il proprio progetto di vita,
mantenersi coerenti nel perseguirlo e rispettare una serie di regole sociali.
Regole che potevano variare in base al ceto, all’attività lavorativa, al sesso,
all’età ma che, se trasgredite, avrebbero minato l’identità sociale di un
individuo alle radici. Un insegnante non poteva essere omosessuale, una donna
doveva arrivare casta al matrimonio, un politico doveva mostrarsi onesto e così
via. Il “disordine” era ammesso soltanto per alcune categorie come gli artisti
(la bohème), gli attori, le prostitute.
Tutti gli altri dovevano mostrarsi coerenti e rispettare le regole inscritte
nel ruolo prescelto: le trasgressioni c’erano, ovviamente, ma dovevano rimanere
segrete per non porre in crisi l’ordine sociale. Ciò era ancora più vero per i
personaggi molto noti, da cui ci si aspettava un comportamento esemplare.
Emblematico fu, negli anni Cinquanta, il caso di Fausto Coppi, campione del
ciclismo, la cui relazione pubblica con una donna sposata - la “dama bianca” -
fu bollata come scandalosa, illegale e giudicata profondamente immorale.
La serietà, la produttività, il senso di responsabilità - tipiche virtù della società borghese - sono ancora attive e apprezzate, si è fatta però anche strada l’idea che desiderio e soggettività debbono avere spazi maggiori e che trasgredire non è drammatico, anche se ciò contrasta con il controllo sociale e l’esigenza di ordine. Così, se negli anni Sessanta un presidente degli Stati Uniti era tenuto a recitare fino in fondo la parte del padre e del marito modello e del politico onesto, negli anni Novanta Bill Clinton è riuscito a restare al suo posto nonostante le scabrose rivelazioni delle sue amanti e le accuse di appropriazione indebita di fondi; accuse che una trentina d’anni prima avrebbero portato alle sue dimissioni.
DECIDERE O NON DECIDERE?
Oggi, non soltanto si
riconosce che l’identità non è un “fatto” definitivo ma un processo in
trasformazione, ma si ammette che possano coesistere ed essere
contemporaneamente sviluppati diversi progetti identitari in competizione tra
loro. E così alla fine può anche accadere che il principale progetto di una
persona diventi il progetto di per sé,
ossia una sorta di movimento, un’astrazione, una successione di cambiamenti non
finalizzati e intercambiabili. Per spiegarmi meglio porterò l’esempio di una
diva nostrana il cui progetto identitario è stato oggetto di dibattito sui
media nella scorsa estate. E’ il caso di Claudia Pandolfi, diva televisiva
della fiction Un medico in famiglia che a distanza di due mesi dal matrimonio si
è scoperta innamorata di un DJ alla moda e che per questo motivo ha lasciato il
neo marito.
In passato questo genere di
vicende riguardavano soltanto la sfera privata, oggi invece vengono discusse
non solo sui settimanali rosa ma anche sui quotidiani seri, come il Corriere
della Sera che il 31-8-99 ha pubblicato una “lettera-confessione”
dell’attrice. L’evento ha avuto ovviamente una ricaduta positiva sul serial che
la Pandolfi stava girando, ha reso più visibile e popolare la neo-diva (che
qualche giorno dopo è apparsa anche nel ruolo di una suora in un nuovo film) e
ha fatto bene anche al DJ, suo partner, che ha conquistato le copertine dei
settimanali. Ma al di là di questi aspetti promozionali tra realtà e fiction manovrati
dagli agenti dei divi e al di là dei reali sentimenti degli interessati, il
caso è emblematico della condizione psicologica di molti giovani di questi
anni; da un lato c’è il desiderio di costruirsi una vita, di fare scelte
impegnative e, dall’altro, ugualmente forte, c’è il desiderio di mantenere
aperte tutte le porte evitando di assumere impegni definitivi oppure, come la
Pandolfi, spezzandoli subito dopo averli assunti. Non volevo rinunciare al giorno più bello della mia vita [quello
del matrimonio] che interessava anche una
buona parte dell’Italia- ha spiegato l’attrice nella sua confessione
pubblica - al tempo stesso non potevo rinunciare al mio nuovo amore…
Questa
difficoltà di scegliere è dovuta a vari fattori: c’è la percezione di godere di
maggiori libertà e di minori costrizioni sociali e c’è anche, in parallelo, lo
spettacolo offerto dalla società opulenta, attraverso i media e la pubblicità,
di un’ampia gamma di possibilità identitarie, tutte attraenti, affascinanti e
“aperte”. Ciò determina una fluttuazione del desiderio da un modello all’altro,
da un codice comportamentale al suo opposto, il che ovviamente rende più
difficile un impegno a lunga scadenza e favorisce la formazione di identità
multiple, transitorie, aperte a successive ristrutturazioni.
Sia
nella vita reale che in quella recitata le celebrità degli schermi e della
canzone, a cui molti guardano come a dei punti di riferimento, hanno delle vite
complesse, con identità multiple e multipli passati. Secondo alcuni psichiatri,
i teenagers di questa generazione, attratti da figure androgine come quelle di
Boy George, Michael Jakson, Renato Zero o femminili come Prince o machi come
Madonna, sono spesso confusi sulla loro e l’altrui identità di genere. Secondo
lo studioso Fredric Jameson questa condizione di indecidibilità in vari ambiti
della propria vita, dovuta all’eccesso di stimoli e a messaggi contrastanti,
può essere egregiamente riassunta in una immagine che ha avuto una grande
diffusione in cui si vede il cantante David Bowie mentre guarda rapito e
soggiogato una pila di televisori, fonte e bersaglio della sua identità.
L’enfasi
data all’immagine e all’autorappresentazione consente anche di prendere in
prestito una identità vivendola attraverso le vicende di un divo, seguendo le
mode del momento, abbandonandosi al flusso dei modelli offerti dalla società e
dal mercato e giocando con essi; adottando cioè l’attitudine disimpegnata ed
estetizzante del flaneur, descritta da Baudelaire.
Da
un lato è dunque aumentata la possibilità di giocare con la propria identità,
di rimandare le scelte definitive, di ristrutturare “in progress”, anche
radicalmente, i propri obiettivi a lunga scadenza (il che può essere positivo
per alcuni, specialmente per chi lavora nel mondo dello spettacolo, il cui
progetto di vita è fondamentalmente quello di rimanere in quel mondo, di avere
successo, di conservare il più a lungo possibile i propri fan attraverso
rappresentazioni sempre nuove e diverse), mentre, da un altro lato, si corre il
rischio di una frammentazione della personalità, di condurre una vita
incoerente, disordinata, soggetta al ghiribizzo delle mode e al sottile
indottrinamento della pubblicità, soggetta, in altre parole, alle regole
economiche del mercato e del consumo di massa.
PROGETTARE IL CORPO
Presi
in questa girandola di possibilità, dal desiderio di realizzarsi in più
direzioni, dalla voglia di non chiudersi in scelte definitive ma di rimanere
aperti ad ogni novità, molti finiscono per accantonare qualsiasi progetto
identitario, il che può portare all’insoddisfazione, all’ansia, al senso del
fallimento personale. Va anche detto che lo spettacolo offerto dai media
dell’immagine crea aspirazioni eccessive, non realizzabili nel mondo reale.
Questo
è uno dei fattori che ci aiuta a spiegare il crescente interesse per il corpo
tipico di questi anni. Il corpo può diventare un progetto identitario per
svariati motivi: a) perché pubblicità, giornali, televisioni diffondono a getto
continuo figure di corpi giovani, belli, palestrati, famosi; b) perché i media
veicolano continuamente notizie di chirurgia plastica e ricette per mantenere
il corpo sexy e snello; c) perché, quando i confini del sé diventano labili e
sfuggenti, il corpo offre un aggancio concreto, confini tangibili, e possiede
quelle caratteristiche di unicità e differenza che sono alla radice di ogni
identità individuale. Ci si può sentire frustrati o ininfluenti nel proprio
ambiente di lavoro, privi di un ruolo sociale o familiare, è però sempre
possibile esercitare una qualche forma di controllo sul proprio corpo, che è la
cosa più concreta e più “nostra” di cui disponiamo.
Fino
a non molto tempo fa, quando la maggior parte dei lavori erano di tipo fisico
il corpo aveva una funzione strumentale, oggi invece viene mostrato, ostentato,
fotografato: è al centro di una osservazione particolareggiata e continua che
spinge a parlarne spesso, a rimodellarlo, ricostruirlo, esibirlo. E’ in
quest’ottica che si comprende la grande diffusione di tatuaggi anche molto
estesi, la cui funzione non è soltanto estetica ma comunicativa e dimostrativa.
Anche la chirurgia plastica ha questo tipo di obiettivi nel momento in cui
offre l’opportunità di una ricostruzione fisica in linea con una particolare
idea di femminilità o di mascolinità. Questo tipo di interventi sul corpo può
assorbire molte energie, come dimostrano casi famosi quale quello del cantante
pop Michael Jackson che, con una serie di operazioni chirurgiche, non soltanto
è riuscito ad eliminare dal viso i segni della sua razza ma ha assunto anche
tratti femminili che lo rendono ambiguo e indefinibile sul piano sessuale e gli
conferiscono un che di enigmatico come personaggio.
Altri
soggetti che cercano l’identità nel corpo sono i culturisti e le giovani donne
anoressiche, che sulle loro carni esercitano un controllo e una disciplina
meticolosi. In entrambi i casi il corpo è al centro di una attenzione continua
non in quanto mezzo per raggiungere un obiettivo (come, ad es., per gli
sportivi o i ballerini) ma come obiettivo in sé. Il peculiare rapporto che le
anoressiche hanno con il cibo e con il proprio corpo e l’impegno quotidiano dei
bodybuilders
nel modellare ogni muscolo, vengono vissuti, sul piano individuale, come spazi
di libertà in cui è possibile esercitare la propria autonomia, la propria
volontà individuale. Ciò risulta particolarmente evidente quando il bodybuilder è una donna che dedica
svariate ore della giornata a costruire un corpo muscoloso, “maschile”, assai
diverso dall’immagine corrente di femminilità, e poi lo esibisce in pubblico
con orgoglio e soddisfazione. In uno studio di Trix Rosen dal titolo Strong
and Sexy si
legge ad un certo punto la seguente dichiarazione di una culturista: “Quando mi
guardo allo specchio vedo una donna che cerca se stessa e che si è detta, una
volta per tutte, che non le importa quale ruolo la società vorrebbe che lei
recitasse”. E
un’altra spiega con convinzione “Voglio un corpo muscoloso. Voglio apparire atletica
e forte. Mi piacere avere un aspetto potente”.
Più
i muscoli si evidenziano e si gonfiano più il culturista è soddisfatto di sé.
Lo si potrebbe interpretare come la manifestazione di un desiderio di potenza
tipicamente maschile, come il desiderio di potenziare la propria vita sessuale.
Le cose però sono più complicate. Non soltanto i culturisti trascorrono la
maggior parte del loro tempo in palestra, impegnati in esercizi faticosi,
discutendo di diete, consultando riviste specializzate, depilandosi e ungendosi
per far risaltare meglio i muscoli e tutte quelle striature che grazie al loro
impegno quotidiano riescono a far emergere (i muscoli vanno lavorati fino a
quando si strappano e poi si cicatrizzano), ma spesso, per gonfiare i muscoli,
assumono anche sostanze che riducono la potenza sessuale. Per molti di loro l’apparenza di mascolinità è
decisamente più importante della sua essenza e la soddisfazione narcisistica è
più ricercata di quella sessuale; il che è in linea con le richieste di una
società che pone ai primi posti il look, i piaceri narcisistici e una
rappresentazione sociale di sé basata sull’aspetto fisico.
In
questi casi, come in altri, la costruzione di un corpo (muscoloso oppure
magrissimo o sensuale ecc.) ha l’obiettivo di ridefinire la relazione tra il
proprio “sé profondo” (che il soggetto considera il “vero sé”) e il sé sociale
che si costruisce nell’interazione con gli altri e il più vasto contesto
culturale. Sebbene l’obiettivo dei bodybuilders (maschi e femmine) sia
quello di avere un corpo potente e quello delle anoressiche sia al contrario
quello di diventare filiformi, ciò che accomuna i due gruppi è il concentrarsi
sul corpo come una materializzazione della volontà individuale. I risultati che
si ottengono sul proprio fisico sono la prova del proprio potere e anche, per
alcuni, una “fortezza umana” che li aiuta a contenere le ansie relative alla
propria autonomia e identità.
LA MALATTIA COME PROGETTO
Può
sembrare un paradosso, ma c’è anche chi, in un estremo tentativo di affermarsi
come soggetto, fa della malattia il proprio progetto di vita. Non si tratta più
di costruire un’esistenza ma di essere malati e riconosciuti come tali. Nel
volume Esclusione sociale e costruzione dell’identità la psicosociologa Teresa
Cristina Carreteiro, riporta casi di donne brasiliane e francesi, sole ed
emarginate, che cercano di farsi accettare dalla società ed essere prese in
carico dalle istituzioni sanitarie attraverso la malattia; una malattia morale
più che fisica. Quando nella vita di una persona tutto il resto è bloccato –
spiega la Carreteiro – il solo progetto per l’avvenire è quello di essere malati
e di convincere gli altri della validità del progetto. Non di guarire. Al di là
della patologia e degli specialisti emergono due figure: quella dello Stato
che, in mancanza d’altro, offre attraverso le istituzioni sanitarie uno statuto
agli esclusi e quella di un padre assente, di cui lo Stato prende il posto
nella storia dell’individuo. Il progetto-malattia, lungi dall’essere una
semplice strategia, è al tempo stesso una richiesta di cittadinanza e di
filiazione, tanto più acuta quanto più difficile è reperire delle alternative.
A conclusione della sua analisi la Carreteiro fa notare come la presa in carico
medica sia, nel bene e nel male, per alcuni individui l’ultima forma di legame
sociale, al di là del quale non esiste più nulla se non la rivolta o l’esclusione
totale.
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L’IDENTITA’ E LE SUE
ANSIE
L’identità
è una dimensione della psiche intorno a cui ruotano molti dei nostri pensieri e
delle nostre preoccupazioni.
Dal
cogito di Cartesio all’io
trascendentale di Kant e Husserl fino alla “ragione” degli illuministi, l’identità è concepita come qualcosa di
essenziale, sostanziale, unitaria, fissa e fondamentalmente non modificabile.
Il compito di ognuno è perciò quello di scoprire e affermare la propria essenza
innata. Altri filosofi postularono, invece, la non sostanzialità del sé (Hume),
oppure concepirono il sé e l’identità come un progetto esistenziale, una
creazione dell’ “individuo autentico” ( Nietzche, Heidegger, Sartre).
Quando
si è convinti che l’identità sia costruibile, che possa essere cambiata e
modificata o che vada affermata nella sua vera natura, è facile diventare
ansiosi: non si è mai certi di avere fatto la scelta giusta, di avere scelto la
propria ‘vera’ identità o di essere riusciti a costruire un qualche tipo di
identità. Si è anche desiderosi di ottenere il riconoscimento degli altri, a
cui si attribuisce spesso il potere di validare o invalidare la propria
identità. Il sociologo George Mead ha spiegato come la coscienza di sé si
sviluppi nel rapporto con gli altri, in particolare nel rapporto con gli altri
significativi e come nel costruire l’identità ognuno tenga conto delle
aspettative delle persone che gli vivono accanto.
Se
a tutto ciò aggiungiamo che la modernità comporta di per sé un processo di
innovazione, un costante ricambio, il continuo emergere di nuove identità e
valori, si comprende come valori e
identità rischino continuamente di diventare fuori moda o superflui o come si
possa semplicemente non essere più validati socialmente, vale a dire
riconosciuti.
Ma
può anche verificarsi l’opposto, che l’identità si cristallizzi e perda
plasticità producendo noia e stanchezza. Si è stanchi della propria vita, di
ciò che si è diventati. Si è intrappolati in una rete di ruoli sociali,
aspettative e relazioni. Si ha l’impressione che non ci siano vie d’uscita.
Oppure ci si sente intrappolati in ruoli così diversi e conflittuali da non sapere più chi si è realmente.
Come
uscire da questa impasse?
Un
primo passo consiste nel comprendere che, nei fatti, non siamo del tutto liberi
e che molti fattori interferiscono nella costruzione dell’identità sia in senso
positivo che negativo. La costruzione autonoma dell’identità è una tendenza
della modernità, una sorta di dover essere che però non sempre trova le condizioni concrete
per realizzarsi. Per non cadere preda dell’ansia è necessario, perciò,
distinguere gli spazi in cui possiamo realisticamente esercitare la nostra
autonomia da quelli in cui invece ciò non è possibile. Il che non significa che
si debbano accettare passivamente lo status quo o le prevaricazioni altrui,
ma rendersi conto dei vincoli e degli ostacoli che si frappongono al nostro
cammino in modo da non avere quelle disillusioni cui si può andare incontro se
le aspettative sono irreali.
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CONCLUDENDO
La costruzione dell’identità
può avere percorsi ed esiti diversi a seconda dei contesti, delle opportunità e
delle caratteristiche individuali. Alcuni individuano un progetto e lo perseguono
con coerenza, impegno e rispetto di una serie di regole; sono, mutuando una
definizione del sociologo David Riesman, gli autodiretti. Ci sono poi i distaccati
che invece rimandano le scelte, non assumono impegni a lunga scadenza, si
distanziano cinicamente da ogni identificazione oppure, all’opposto, gli eterodiretti che costruiscono la propria
identità sui modelli offerti dalla società di massa abbandonandosi alle mode e
a ciò che di volta in volta propone il mercato. Man mano che passa il tempo i
primi possono soffrire per la mancanza di identità, mentre i secondi, vivendo
una condizione di estrema instabilità, possono decidere di ripiegare, ad un
certo punto, sulle strategie
tradizionaliste, etniche o religiose: strategie che, ovviamente, si muovono
nella direzione contraria rispetto alle strategie individualiste della modernità
e della tarda modernità (autodirezione, eterodirezione).
Coloro che scelgono la tradizione, l’etnia o la religione avvertono il bisogno di impegnarsi in un progetto più vasto in cui l’identità sia concreta e fissa; non gradiscono la mobilità, sono incuranti del successo personale e degli altri raggiungimenti sociali. Cercano punti di riferimento chiari, regole evidenti cui adeguare il proprio comportamento e un gruppo di appartenenza forte. Possono apportare delle modifiche alla loro identità ma non tali da porli in crisi, da richiedere grossi cambiamenti. Nei casi estremi i “tradizionalisti” possono affidarsi a un guru che li conquista in quanto mostra una grande sicurezza e pretende di avere una risposta a qualsiasi interrogativo esistenziale.
Il fascino dei guru produce
negli adepti il fenomeno dell’ identificazione
che consiste nell’attribuire a un altro individuo aspetti della propria
identità: si proiettano nel guru le proprie attese, gli prestano quei
sentimenti di amore e di sincerità che sono un riflesso dei propri desideri.
L’operazione psicologica complementare è l’introiezione
che consiste nell’attribuirsi le caratteristiche del capo. A questo punto tra
il capo e il suo seguace non c’è più quella sana distanza che consente di poter
essere in disaccordo, dubitare, dissociarsi e soprattutto realizzare un proprio
progetto identitario. Ma questo è proprio il motivo per cui gli adepti si
affidano al guru: l’identità, anziché ricercata, viene delegata.
AAVV (1996) Modernity & Identity. Blackwell, Oxford
Benson S. (1997), The body, health and eating disorders. In Identy and difference (ed. K. Woodward),
Sage Publ., London
Fussell S (1991), Muscle:
confesssions of an unlikely bodybuilder. Scribners, London